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moniaxa |
Oggetto: 22 Ott, 2016 - 13:18
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assodipicche |
Oggetto: Matilde, duchessa di Normandia e Regina d'Inghilterra 19 Ott, 2016 - 19:49
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Non solo, ma dette al marito ben nove figli, fra cui due re: Guglielmo II d'Inghilterra e Enrico I sempre d'Inghilterra, paese in cui Guglielmo il Bastardo diventa Guglielmo il Conquistatore, arrivando con una nave ragalatagli dalla moglie. Morale: con le buone maniere si ottiene sempre tutto (specialmente con le donne!)!  |
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Margine |
Oggetto: 19 Ott, 2016 - 12:18
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Anno 1051.
Guglielmo detto il Bastardo, figlio di Roberto il Magnifico duca di Normandia e di Herleva, sua amante di umili origini (sembra che il padre fosse un "preparatore di salme" e conciatore di pelli di Falaise), si costruì da solo un potere enorme, ereditato solo in parte dal padre essendo figlio illegittimo e di bassi natali per metà del suo sangue. Prese il controllo del ducato sconfiggendo ogni opposizione, affogando nel sangue le ostilità dei feudatari contrari alla sua nomina, distruggendo castelli, saccheggiando villaggi. Guglielmo fu un guerriero, un uomo violento e privo di scrupoli. Uno al quale non puoi dire di no se non sei pronto a difenderti. Difenderti sul serio; la parola scrupoli, per Guglielmo non credo avesse alcun significato...
Dopo aver riportato sotto il suo controllo un territorio enorme e abitato da una moltitudine di guerrieri e avventurieri, decise di contrarre un matrimonio favorevole, che potesse portare legittimità alla sua casa. La scelta ricadde su sua cugina, Matilde di Fiandra, figlia del conte di Fiandra e nipote diretta del re di Francia. A quel tempo non si chiedevano pareri alle ragazze da maritare ma pare che, venuta a sapere dell'offerta di matrimonio fatta a suo padre, Matile avesse commentato di fronte agli emissari di Guglielmo che avrebbe preferito morire piuttosto che sposare un bastardo villano come lui. La faccenda sembrava chiusa così, suo padre in fondo non era sicuro di volersi inimicare il Papa con un matrimonio sì favorevole dal punto di vista secolare ma che avrebbe avuto l'ostilità della Chiesa, a quel tempo sempre più ingerente sulle questioni delle unioni fra consanguinei.
Guglielmo però, che forse avrebbe anche potuto accettare un rifiuto da parte del Conte, mal accettò le espressioni offensive della ragazza. Arrabbiatissimo, partì, con un seguito ristretto e di grande mobilità all volta di Bruges, dove aveva saputo che la giovane risiedeva, e la attese fuori dalla chiesa principale della cittadina. Quando la vide arrivare, scortata da armigeri e servitori, non ebbe un attimo di esitazione: le piombò addosso, la afferrò per le lunghe trecce e la buttò giù dal cavallo, colpendola anche con un calcio (concordano sulla dinamica i cronisti Orderico Vitale e il monaco di Jumiéges) fra gli sguardi esterrefatti degli astanti. Da notare che nessuno osò difendere Matilde, tanto spaventoso doveva essere per fama e fisico il duca Guglielmo.
Il conte di Fiandra Baldovino, saputo dell'avvenimento, era pronto a far pagare con il sangue l'oltraggio subito dalla figlia, fra propositi di assalti in grande stile e la tentazione di sfidare personalmente il normanno a duello. Matilde allora si introdusse nel consesso dei pari del padre, tutti desiderosi di menare le mani e, cocciuta come la storia ce l'ha tramandata, dichiarò che avrebbe sposato solo e soltanto Guglielmo. Avrebbe preferito morire piuttosto che NON sposare il bastardo di Normandia.
E si sposarono davvero.
Tratto quasi fedelmente da Il Medievalista
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assodipicche |
Oggetto: Ricordate questa foto? 12 Set, 2016 - 11:10
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È morta Greta Friedman (92 anni): la ragazza del bacio di Times Square (New York) il 14 agosto 1945. Resterà per sempre l'icona della fine della Seconda Guerra Mondiale.
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Alma |
Oggetto: 17 Lug, 2016 - 20:06
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Bello!  |
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Margine |
Oggetto: 17 Lug, 2016 - 11:26
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Quella volta in cui la cavalleria riuscì a battere una flotta navale
Episodio di guerra più unico che raro: avvenne in Olanda, nel 1795, durante la guerra tra l’esercito rivoluzionario francese e la Prima coalizione anti-francese. Cavalli contro navi, vinsero i cavalli di LinkPop
Le guerre portano sempre disastri, dolori e sofferenze. Qualche volta, però, riescono a tirare fuori anche qualcosa di divertente. Non si parla delle partite di calcio tra soldati di schieramenti opposti in trincea, ma di un evento che ebbe luogo nel lontano 23 gennaio 1795, quando una flotta navale venne fermata e catturata da una carica di cavalleria. Sì, avete letto bene: cavalli contro navi, con vittoria dei cavalli.
Il fatto avvenne durante le campagne militari dell’esercito francese rivoluzionario, in guerra con la Prima coalizione anti-francese (una lega che comprendeva Inghilterra, Austria, Russia, Prussia, Spagna, Regni italiani e la Repubblica delle Sette Province Unite – cioè l’Olanda). Tra una battaglia e l’altra, i militari francesi avevano deciso di accamparsi ad Amsterdam per l’inverno. Tutto scorreva tranquillo fino a quando, un giorno, non venne riferito ai generali francesi di una flotta di navi olandesi al largo, più o meno all’altezza della baia di Den Helder. Erano bloccate nel ghiaccio.
I generali, per impedire che, con lo sciogliersi delle acque, i nemici potessero fuggire, decisero di attaccare per primi. Fecero un sopralluogo e scoprirono che i marinai erano tutti addormentati. Un’occasione imperdibile: tornati al campo, fecero fasciare gli zoccoli dei cavalli (per evitare che il rumore della loro corsa potesse avvertire gli olandesi) e partirono all’attacco – con cautela, a passo felpato.
La carica durò poco: il ghiaccio resistette, i cavalli avanzarono e i soldati olandesi non poterono rispondere al fuoco. Le navi, bloccate dal ghiaccio, si erano inclinate e i cannoni non potevano essere spostati. Ci volle poco, insomma, per lo squadrone francese ad avere la meglio sui marinai olandesi, ancora mezzi intontiti dal sonno e dal freddo (oltre che dalla sensazione di avere un’allucinazione). Furono tutti catturati e venne occupata anche la città di Den Helder. Tra i francesi non si fece male nessuno. Al contrario, erano diventati protagonisti di uno degli episodi più buffi della storia militare. Un fatto che non era mai avvenuto prima e non si sarebbe mai ripetuto.

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acquario |
Oggetto: QUALCOSA DI INIMMAGGINABILE SE FOSSE VERA 06 Mar, 2016 - 15:07
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La storia la scrivono i vincitori?
Ecco l’intervista integrale a Priebke il perdente
D. Sig. Priebke, anni addietro lei ha dichiarato che non rinnegava il suo passato. Con i suoi cento anni di età lo pensa ancora?
R. Sì.
D. Cosa intende esattamente con questo?
R. Che ho scelto di essere me stesso.
D. Quindi ancora oggi lei si sente nazista.
R. La fedeltà al proprio passato è qualche cosa che ha a che fare con le nostre convinzioni. Si tratta del mio modo di vedere il mondo, i miei ideali, quello che per noi tedeschi fu la Weltanschauung e ancora ha a che fare con il senso dell’amor proprio e dell’onore. La politica è un’altra questione. Il Nazionalsocialismo è scomparso con la sconfitta, e oggi non avrebbe comunque nessuna possibilità di tornare.
D. Della visione del mondo di cui lei parla fa parte anche l’antisemitismo.
R. Se le sue domande sono mirate a conoscere la verità è necessario abbandonare i luoghi comuni: criticare non vuol dire che si vuole distruggere qualcuno. In Germania sin dai primi del Novecento si criticava apertamente il comportamento degli ebrei. Il fatto che gli ebrei avessero accumulato nelle loro mani un immenso potere economico e di conseguenza politico, pur rappresentando una parte in proporzione assolutamente esigua della popolazione mondiale, era considerato ingiusto. E’ un fatto che ancora oggi, se prendiamo le mille persone più ricche e potenti del mondo, dobbiamo constatare che una notevole parte di loro sono ebrei, banchieri o azionisti di maggioranza di imprese multinazionali. In Germania poi, specialmente dopo la sconfitta della prima guerra mondiale e l’ingiustizia dei trattati di Versailles, immigrazioni ebraiche dall’est europeo avevano provocato dei veri disastri, con l’accumulo di immensi capitali da parte di questi immigrati in pochi anni, mentre con la repubblica di Weimar la grande maggioranza del popolo tedesco viveva in forte povertà. In quel clima gli usurai si arricchivano e il senso di frustrazione nei confronti degli ebrei cresceva.
D. Quella che gli ebrei abbiano praticato l’usura ammessa dalla loro religione, mentre veniva proibita ai cristiani, è una vecchi storia. Cosa c’è di vero secondo lei?
R. Infatti non è certo una mia idea. Basta leggere Shakespeare o Dostoevskij per capire che simili problemi con gli ebrei sono storicamente effettivamente esistiti, da Venezia a San Pietroburgo. Questo non vuole assolutamente dire che gli unici usurai all’epoca fossero gli ebrei. Ho fatto mia una frase del poeta Ezra Pound: ”Tra uno strozzino ebreo e uno strozzino orfano non vedo nessuna differenza”.
D. Per tutto questo lei giustifica l’antisemitismo?
R. No, guardi, questo non significa che tra gli ebrei non ci siano persone perbene. Ripeto, antisemitismo vuol dire odio, odio indiscriminato. Io anche in questi ultimi anni della mia persecuzione, da vecchio, privato della libertà ho sempre rifiutato l’odio. Non ho mai voluto odiare nemmeno chi mi ha odiato. Parlo solo di diritto di critica e ne sto spiegando i motivi. E le dirò di più: deve considerare che, per loro particolari motivi religiosi, una grossa parte di ebrei si considerava superiore a tutti gli altri esseri umani. Si immedesimava nel “Popolo Eletto da Dio” della Bibbia.
D. Anche Hitler parlava della razza ariana come superiore.
R. Sì, Hitler è caduto anche lui nell’equivoco di rincorrere questa idea di superiorità. Questa è stata una delle cause di errori senza ritorno. Tenga conto comunque che un certo razzismo era la normalità in quegli anni. Non solo a livello di mentalità popolare, ma anche a livello di governi e addirittura di ordinamenti giuridici. Gli Americani, dopo aver deportato le popolazioni africane ed essere stati schiavisti, continuavano a essere razzisti, e di fatto discriminavano i neri. Le prime leggi, definite razziali, di Hitler non limitavano i diritti degli ebrei più di quanto fossero limitati quelli dei neri in diversi stati USA. Stessa cosa per le popolazioni dell’India da parte degli inglesi; e i francesi, che non si sono comportati molto diversamente con i cosiddetti sudditi delle loro colonie. Non parliamo poi del trattamento subìto all’epoca dalle minoranze etniche nell’ex URSS.
D. E quindi come sono andate peggiorando in Germania le cose, secondo lei?
R. Il conflitto si è radicalizzato, è andato crescendo. Gli ebrei tedeschi, americani, inglesi e l’ebraismo mondiale da un lato, contro la Germania che stava dall’altro. Naturalmente gli ebrei tedeschi si sono venuti a trovare in una posizione sempre più difficile. La successiva decisione di promulgare leggi molto dure resero in Germania la vita veramente difficile agli ebrei. Poi nel novembre del 1938 un ebreo, un certo Grynszpan, per protesta contro la Germania uccise in Francia un consigliere della nostra ambasciata, Ernest von Rath. Ne seguì la famosa “Notte dei cristalli’”. Gruppi di dimostranti ruppero in tutto il Reich le vetrine dei negozi di proprietà degli ebrei. Da allora gli ebrei furono considerati solo e soltanto come nemici. Hitler dopo aver vinto le elezioni, li aveva in un primo tempo incoraggiati in tutti i modi a lasciare la Germania.
Successivamente, nel clima di forte sospetto nei confronti degli ebrei tedeschi, causato dalla guerra e di boicottaggio e di aperto conflitto con le più importanti organizzazioni ebraiche mondiali, li rinchiuse nei lager, proprio come nemici. Certo per molte famiglie, spesso senza alcuna colpa, questo fu rovinoso.
D. La colpa quindi di ciò che gli ebrei hanno subìto secondo lei sarebbe degli ebrei stessi?
R. La colpa è un po’ di tutte le parti. Anche degli alleati che scatenarono la seconda guerra mondiale contro la Germania, a seguito della invasione della Polonia, per rivendicare territori dove la forte presenza tedesca era sottoposta a continue vessazioni. Territori posti dal trattato di Versailles sotto il controllo del neonato Stato polacco. Contro la Russia di Stalin e la sua invasione della restante parte della Polonia nessuno mosse un dito. Anzi, a fine conflitto, ufficialmente nato per difendere proprio l’indipendenza della Polonia dai tedeschi, fu regalato senza tanti complimenti tutto l’est europeo, Polonia compresa, a Stalin.
D. Quindi, politica a parte, lei sposa le teorie storiche revisioniste.
R. Non capisco perfettamente cosa si intenda per revisionismo. Se parliamo del processo di Norimberga del 1945 allora posso dirle che fu una cosa incredibile, un grande palcoscenico creato a posta per disumanizzare di fronte all’opinione pubblica mondiale il popolo tedesco e i suoi capi. Per infierire sullo sconfitto oramai impossibilitato a difendersi.
D. Su quali basi afferma questo?
R. Cosa si può dire di un autonominatosi tribunale che giudica solo i crimini degli sconfitti e non quelli dei vincitori; dove il vincitore è al tempo stesso pubblica accusa, giudice e parte lesa e dove gli articoli di reato erano stati appositamente creati successivamente ai fatti contestati, proprio per condannare in modo retroattivo? Lo stesso presidente americano Kennedy ha condannato quel processo definendolo una cosa “disgustosa”, in quanto “si erano violati i princìpi della costituzione americana per punire un avversario sconfitto”.
D. Se intende dire che il reato di crimini contro l’umanità con cui si è condannato a Norimberga non esisteva prima che fosse contestato proprio da quel tribunale internazionale, c’è da dire in ogni caso che le accuse riguardavano fatti comunque terribili.
R. A Norimberga i tedeschi furono accusati della strage di Katyn, poi nel 1990 Gorbaciov ammise che erano stati proprio loro stessi russi accusatori, ad uccidere i ventimila ufficiali polacchi con un colpo alla nuca nella foresta di Katyn. Nel 1992 il presidente russo Eltsin produsse anche il documento originale contenente l’ordine firmato da Stalin. I tedeschi furono anche accusati di aver fatto sapone con gli ebrei. Campioni di quel sapone finirono nei musei USA, in Israele e in altri Paesi. Solo nel 1990 un professore della università di Gerusalemme studiò i campioni dovendo infine ammettere che si trattava di un imbroglio.
D. Sì, ma i campi di concentramento non sono un’invenzione dei giudici di Norimberga.
R. In quegli anni terribili di guerra, rinchiudere nei lager (in italiano sono i campi di concentramento) popolazioni civili che rappresentavano un pericolo per la sicurezza nazionale era una cosa normale. Nell’ultimo conflitto mondiale l’hanno fatto sia i russi che gli USA. Questi ultimi in particolare con i cittadini americani di origine orientale.
D. In America, però, nei campi di concentramento per le popolazioni di etnia giapponese non c’erano le camere a gas!
R. Come le ho detto, a Norimberga sono state inventate una infinità di accuse, Per quanto riguarda quella che nei campi di concentramento vi fossero camere a gas aspettiamo ancora le prove. Nei campi i detenuti lavoravano. Molti uscivano dal lager per il lavoro e vi facevano ritorno la sera. II bisogno di forza lavoro durante la guerra è incompatibile con la possibilità che allo stesso tempo, in qualche punto del campo, vi fossero file di persone che andavano alla gasazione. L’attività di una camera a gas è invasiva nell’ambiente, terribilmente pericolosa anche al suo esterno, mortale. L’idea di mandare a morte milioni di persone in questo modo, nello stesso luogo dove altri vivono e lavorano senza che si accorgano di nulla è pazzesca, difficilmente realizzabile anche sul piano pratico.
D. Ma lei quando ha sentito parlare per la prima volta del piano di sterminio degli ebrei e delle camere a gas?
R. La prima volta che ho sentito di cose simili la guerra era finita, e io mi trovavo in un campo di concentramento inglese, ero insieme a Walter Rauff. Rimanemmo entrambi allibiti. Non potevamo assolutamente credere a fatti così orribili: camere a gas per sterminare uomini, donne e bambini. Se ne parlò con il colonnello Rauff e con gli altri colleghi per giorni. Nonostante fossimo tutti SS, ognuno al nostro livello con una particolare posizione nell’apparato nazionalsocialista, mai a nessuno di noi erano giunte alle orecchie cose simili.
Pensi che anni e anni dopo venni ha sapere che il mio amico e superiore Walter Rauff, che aveva diviso con me anche qualche pezzo di pane duro nel campo di concentramento, veniva accusato di essere l’inventore di un fantomatico autocarro di gasazione. Cose di questo genere le può pensare solo chi non ha conosciuto Walter Rauff.
D. E tutte le testimonianze della esistenza delle camere a gas?
R. Nei campi le camere a gas non si sono mai trovate, salvo quella costruita a guerra finita dagli Americani a Dachau. Testimonianze che si possono definire affidabili sul piano giudiziario o storico a proposito delle camere a gas non ce ne sono; a cominciare da quelle di alcuni degli ultimi comandanti e responsabili dei campi, come per esempio quella del più noto dei comandanti di Auschwitz , Rudolf Höss. A parte le grandi contraddizioni della sua testimonianza, prima di deporre a Norimberga fu torturato e dopo la testimonianza per ordine dei russi gli tapparono la bocca impiccandolo. Per questi testimoni, ritenuti preziosi dai vincitori, le violenze fisiche e morali in caso di mancanza di condiscendenza erano insopportabili; le minacce erano anche di rivalsa sui familiari. So per l’esperienza personale della mia prigionia e quella dei miei colleghi, come, da parte dei vincitori, venivano estorte nei campi di concentramento le confessioni ai prigionieri, i quali spesso non conoscevano nemmeno la lingua inglese. Poi il trattamento riservato ai prigionieri nei campi russi della Siberia oramai è cosa nota, si doveva firmare qualunque tipo di confessione richiesta; e basta.
D. Quindi per lei quei milioni di morti sono un’invenzione.
R. Io ho conosciuto personalmente i lager. L’ultima volta sono stato a Mauthausen nel maggio del 1944 a interrogare il figlio di Badoglio, Mario, per ordine di Himmler. Ho girato quel campo in lungo e in largo per due giorni. C’erano immense cucine in funzione per gli internati e all’interno anche un bordello per le loro esigenze. Niente camere a gas. Purtroppo tanta gente è morta nei campi, ma non per una volontà assassina. La guerra, le condizioni di vita dure, la fame, la mancanza di cure adeguate si sono risolti spesso in un disastro. Però queste tragedie dei civili erano all’ordine del giorno non solo nei campi ma in tutta la Germania, soprattutto a causa dei bombardamenti indiscriminati delle città.
D. Quindi lei minimizza la tragedia degli ebrei: l’Olocausto?
R. C’è poco da minimizzare: una tragedia è una tragedia. Si pone semmai un problema di verità storica. I vincitori del secondo conflitto mondiale avevano interesse a che non si dovesse chiedere conto dei loro crimini. Avevano raso al suolo intere città tedesche, dove non vi era un solo soldato, solo per uccidere donne, bambini e vecchi e così fiaccare la volontà di combattere del loro nemico. Questa sorte è toccata ad Amburgo, Lubecca, Berlino, Dresda e tante altre città. Approfittavano della superiorità dei loro bombardieri per uccidere i civili impunemente e con folle spietatezza. Poi è toccato alla popolazione di Tokyo e infine con le atomiche ai civili di Nagasaki e Hiroshima. Per questo era necessario inventare dei particolari crimini commessi dalla Germania e reclamizzarli tanto da presentare i tedeschi come creature del male e tutte le altre sciocchezze: soggetti da romanzo dell’orrore su cui Hollywood ha girato centinaia di film.
Del resto da allora il metodo dei vincitori della seconda guerra mondiale non è molto cambiato: a sentire loro esportano la democrazia con cosiddette missioni di pace contro le canaglie, descrivono terroristi che si sono macchiati di atti sempre mostruosi, inenarrabili. Ma in pratica attaccano soprattutto con l’aviazione chi non si sottomette. Massacrano militari e civili che non hanno i mezzi per difendersi. Alla fine, tra un intervento umanitario e l’altro nei vari Paesi, mettono sulle poltrone dei governi dei burattini che assecondano i loro interessi economici e politici.
D. Ma allora certe prove inoppugnabili come filmati e fotografie dei lager come le spiega?
R. Quei filmati sono un’ulteriore prova della falsificazione: Provengono quasi tutti dal campo di Bergen Belsen. Era un campo dove le autorità tedesche inviavano da altri campi gli internati inabili al lavoro. Vi era all’interno anche un reparto per convalescenti. Già questo la dice lunga sulla volontà assassina dei tedeschi. Sembra strano che in tempo di guerra si sia messo in piedi una struttura per accogliere coloro che invece si volevano gasare. I bombardamenti alleati nel 1945 hanno lasciato quel campo senza viveri, acqua e medicinali. Si è diffusa un’epidemia di tifo petecchiale che ha causato migliaia di malati e morti. Quei filmati risalgono proprio a quei fatti, quando il campo di accoglienza di Bergen Belsen devastato dall’epidemia, nell’aprile 1945, era ormai nelle mani degli alleati. Le riprese furono appositamente girate, per motivi propagandistici, dal regista inglese Hitchcock, il maestro dell’horror. E’ spaventoso il cinismo, la mancanza di senso di umanità con cui ancora oggi si specula con quelle immagini. Proiettate per anni dagli schermi televisivi, con sottofondi musicali angoscianti, si è ingannato il pubblico associando, con spietata
astuzia, quelle scene terribili alle camere a gas, con cui non avevano invece nulla a che fare. Un falso!
D. II motivo di tutte queste mistificazioni, secondo lei, sarebbe coprire i propri crimini da parte dei vincitori?
R. In un primo tempo fu così. Un copione uguale a Norimberga fu inventato anche dal Generale McArthur in Giappone con il processo di Tokyo. In quel caso per impiccare si escogitarono altre storie e altri crimini. Per criminalizzare i giapponesi che avevano subìto la bomba atomica, si inventarono all’epoca persino accuse di cannibalismo.
D. Perché in un primo tempo?
R. Perché successivamente la letteratura sull’Olocausto è servita soprattutto allo stato di Israele per due motivi. Il primo è chiarito bene da uno scrittore ebreo figlio di deportati: Norman Finkelstein. Nel suo libro “L’industria dell’Olocausto” spiega come questa industria abbia portato, attraverso una campagna di rivendicazioni, risarcimenti miliardari nelle casse di istituzioni ebraiche e in quelle dello stato di Israele. Finkelstein parla di “un vero e proprio racket di estorsioni”. Per quanto riguarda il secondo punto, lo scrittore Sergio Romano, che non è certo un revisionista, spiega che, dopo la “guerra del Libano”, lo stato di Israele ha capito che incrementare ed enfatizzare la drammaticità della “letteratura sull’Olocausto” gli avrebbe portato vantaggi nel suo contenzioso territoriale con gli arabi e “una sorta di semi immunità diplomatica”.
D. In tutto il mondo si parla dell’Olocausto come sterminio, lei ha dei dubbi o lo nega recisamente?
R. I mezzi di propaganda di chi oggi detiene il potere globale sono inarginabili. Attraverso una sottocultura storica appositamente creata e divulgata da televisione e cinematografia, si sono manipolate le coscienze, lavorando sulle emozioni. In particolare le nuove generazioni, a cominciare dalla scuola, sono state sottoposte al lavaggio del cervello, ossessionate con storie macabre per assoggettarne la libertà di giudizio.
Come le ho detto, siamo da quasi 70 anni in attesa delle prove dei misfatti contestati al popolo tedesco. Gli storici non hanno trovato un solo documento che riguardasse le camere a gas. Non un ordine scritto, una relazione o un parere di un’istituzione tedesca, un rapporto degli addetti. Nulla di nulla.
Nell’assenza di documenti, i giudici di Norimberga hanno dato per scontato che il progetto che si intitolava “Soluzione finale del problema ebraico” allo studio nel Reich, che vagliava le possibilità territoriali di allontanamento degli ebrei dalla Germania e successivamente dai territori occupati, compreso il possibile trasferimento in Madagascar, fosse un codice segreto di copertura che significava il loro sterminio. E’ assurdo! In piena guerra, quando eravamo ancora vincitori sia in Africa che in Russia, gli ebrei, che erano stati in un primo tempo semplicemente incoraggiati, vennero poi fino al 1941 spinti in tutti i modi a lasciare autonomamente la Germania. Solo dopo due anni dall’inizio della guerra cominciarono i provvedimenti restrittivi della loro libertà.
D. Ammettiamo allora che le prove di cui lei parla vengano fuori. Parlo di un documento firmato da Hitler o da un altro gerarca. Quale sarebbe la sua posizione?
R. La mia posizione è di condanna tassativa per fatti del genere. Tutti gli atti di violenza indiscriminata contro le comunità, senza che si tenga conto delle effettive responsabilità individuali, sono inaccettabili, assolutamente da condannare. Quello che è successo agli indiani d’America, ai kulaki in Russia, agli italiani infoibati in Istria, agli armeni in Turchia, ai prigionieri tedeschi nei campi di concentramento americani in Germania e in Francia, così come in quelli russi, i primi lasciati morire di stenti volutamente dal presidente americano Eisenhower, i secondi da Stalin. Entrambi i capi di Stato non rispettarono volutamente la convenzione di Ginevra per infierire fino alla tragedia. Tutti episodi, ripeto, da condannare senza mezzi termini, comprese le persecuzioni fatte dai tedeschi a danno degli ebrei; che indubbiamente ci sono state. Quelle reali però, non quelle inventate per propaganda.
D. Lei ammette quindi la possibilità che queste prove, sfuggite a una eventuale distruzione fatta dai tedeschi alla fine del conflitto, potrebbero un giorno venir fuori?
R. Le ho già detto che certi fatti vanno condannati in assoluto. Quindi, se poniamo anche solo per assurdo che un domani si dovessero trovare prove su queste camere a gas, la condanna di cose così orribili, di chi le ha volute e di chi le ha usate per uccidere, dovrebbe essere indiscussa e totale. Vede, in questo senso ho imparato che nella vita le sorprese possono non finire mai. In questo caso però credo di poterle escludere con certezza, perché per quasi sessanta anni i documenti tedeschi, sequestrati dai vincitori della guerra, sono stati esaminati e vagliati da centinaia e centinaia di studiosi, sicché, ciò che non è emerso finora difficilmente potrà emergere in futuro.
Per un altro motivo devo poi ritenerlo estremamente improbabile, e le spiego il perché: a guerra già avanzata, i nostri avversari avevano cominciato a insinuare sospetti su attività omicide nei Lager. Parlo della dichiarazione interalleata dei dicembre 1942, in cui si diceva genericamente di barbari crimini della Germania contro gli ebrei e si prevedeva la punizione dei colpevoli. Poi, alla fine del 1943, ho saputo che non si trattava di generica propaganda di guerra, ma che addirittura i nostri nemici pensavano di fabbricare false prove su questi crimini. La prima notizia la ebbi dal mio compagno di corso, e grande amico, Capitano Paul Reinicke, che passava le sue giornate a contatto con il numero due del governo tedesco, il Reichsmarschall Goering: era il suo capo scorta. L’ultima volta che lo vidi mi riferì del progetto di vere e proprie falsificazioni. Goering era furibondo per il fatto che riteneva queste mistificazioni infamanti agli occhi del mondo intero. Proprio Goering, prima di suicidarsi, contestò violentemente di fronte al tribunale di Norimberga la produzione di prove falsificate.
Un altro accenno lo ebbi successivamente dal capo della polizia Ernst Kaltenbrunner, l’uomo che aveva sostituito Heydrich dopo la sua morte e che fu poi mandato alla forca a seguito del verdetto di Norimberga. Lo vidi verso la fine della guerra per riferirgli le informazioni raccolte sul tradimento dei Re Vittorio Emanuele. Mi accennò che i futuri vincitori erano già all’opera per costruire false prove di crimini di guerra ed altre efferatezze che avrebbero inventato sui lager a riprova della crudeltà tedesca. Stavano già mettendosi d’accordo sui particolari di come inscenare uno speciale giudizio per i vinti.
Soprattutto però ho incontrato nell’agosto 1944 il diretto collaboratore del generale Kaltenbrunner, il capo della Gestapo, generale Heinrich Müller. Grazie a lui ero riuscito a frequentare il corso allievi ufficiali. A lui dovevo molto e lui era affezionato a me. Era venuto a Roma per risolvere un problema personale del mio comandante, ten. colonnello Herbert Kappler. In quei giorni la quinta armata americana stava per sfondare a Cassino, i russi avanzavano verso la Germania. La guerra era già inesorabilmente persa. Quella sera mi chiese di accompagnarlo in albergo. Essendoci un minimo di confidenza mi permisi di chiedergli maggiori dettagli sulla questione. Mi disse che tramite l’attività di spionaggio si aveva avuto conferma che il nemico, in attesa della vittoria finale, stava tentando di fabbricare le prove di nostri crimini per mettere in piedi un giudizio spettacolare di criminalizzazione della Germania una volta sconfitta. Aveva notizie precise ed era seriamente preoccupato. Sosteneva che di questa gente non c’era da fidarsi, perché non avevano senso dell’onore né scrupoli. Allora ero giovane e non diedi il giusto peso alle sue parole, ma le cose poi di fatto andarono proprio come il generale Müller mi aveva detto. Questi sono gli uomini, i gerarchi, che secondo quanto oggi si dice avrebbero dovuto pensare e organizzare lo sterminio degli ebrei con le camere a gas! Lo considererei ridicolo, se non si trattasse di fatti tragici.
Per questo quando gli americani nel 2003 hanno aggredito l’Iraq con la scusa che possedeva “armi di distruzione di massa”, con tanto di falso giuramento di fronte al consiglio di sicurezza dell’ONU del Segretario di stato Powel, proprio loro che quelle armi erano stati gli unici a usarle in guerra, io mi sono detto: niente di nuovo!
D. Lei da cittadino tedesco sa che alcune leggi in Germania, Austria, Francia, Svizzera puniscono con il carcere chi nega I’Olocausto?
R. Sì, i poteri forti mondiali le hanno imposte e tra poco le imporranno anche in Italia. L’inganno sta proprio nel far credere alla gente che chi, per esempio, si oppone al colonialismo israeliano e al sionismo in Palestina sia antisemita; chi si permette di criticare gli ebrei sia sempre e comunque antisemita; chi osa chiedere le prove della esistenza di queste camere a gas nei campi di concentramento, è come se approvasse una idea di sterminio degli ebrei. Si tratta di una falsificazione vergognosa. Proprio queste leggi dimostrano la paura che la verità venga a galla. Ovviamente si teme che dopo la campagna propagandistica fatta di emozioni, gli storici si interroghino sulle prove, gli studiosi si rendano conto delle mistificazioni. Proprio queste leggi apriranno gli occhi a chi ancora crede nella libertà di pensiero e nella importanza della indipendenza nella ricerca storica.
Certo, per quello che ho detto posso essere incriminato, la mia situazione potrebbe addirittura ancora peggiorare ma dovevo raccontare le cose come sono realmente state, il coraggio della sincerità era un dovere nei confronti del mio Paese, un contributo nel compimento dei miei cento anni per il riscatto e la dignità del mio popolo.
P. S.
UN INTERVISTA CHE LASCIA DEI DUBBI SU DI UNA VERITA MONDIALE O UNA MISTIFICAZIONE PLANETARIA ..QUANTO POI SAPPIAMO CHE QUANDO LA STORIA VIENE SCRITTA DAI VINCITORI NON E MAI PURA VERITA .....CONOSCIAMO ABBASTANZA BENE LA VERIYA DEI VINCITORI IN OCCASIONE DELLA LIBERAZIONE DEL SUDITALIA DA PARTE DEI PIEMONTESI ....DIVENNERO "BRIGANTI" I SOLDATI BORBONICI. |
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assodipicche |
Oggetto: Liberazione o conquista: le diverse facce della storia. 20 Gen, 2016 - 18:50
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Quella che vedete qui in alto è una parte di quello che viene impropriamente chiamato il “Forte di Fenestrelle”, esattamente il palazzo del governatore.
Impropriamente chiamato "forte", perché non è costituito da un singolo baluardo, ma da un complesso di fortificazioni che si estendono per oltre tre chilometri su una superficie di 1.350.000 metri quadrati. Iniziata nel 1728 su progetto dell’ing. Bertola, la costruzione venne terminata nel 1850. È così imponente che è unanimemente considerata la più grande fortezza alpina d’Europa. La sua funzione era quella di sbarramento della Val Chisone contro eventuali invasioni straniere.
Perché ne parlo? Perché in altro spazio di questo sito se n’è fatto cenno fugace, indicando il forte come il primo “campo-lager” della storia e per giunta con paternità italiana (caso mai “piemontese”) e non tedesca. In realtà, “l’onore dell’invenzione” dei lager è tutto e assolutamente tedesco, perché furono i nazisti a usare i Konzentrationslager (campi di concentramento) nel 1933 e poi -dopo il 40- i Vernichtungslager (campi di sterminio). Se qualcuno dei lettori di quel post non ha poi approfondito per conto proprio o non conosceva questi aspetti drammatici -ma comunque marginali- della storia relativa alla caduta dei Borboni (liberazione o conquista del Sud, a seconda delle angolazioni), sarà rimasto sorpreso, senza però rendersi conto che la questione non si riferiva alla seconda guerra mondiale, ma agli eventi successivi alla dissoluzione del Regno di Napoli (1860). È a quell’epoca infatti che entra nella vicenda il Forte di Fenestrelle, perché nei suoi immensi cameroni furono rinchiusi per qualche tempo soldati provenienti (o deportati; anche qui a seconda delle interpretazioni) dalle fila dello sconfitto esercito delle due Sicilie. Sul numero la controversia non è risolta. Se avrete la pazienza di visionare il video qui in basso, vedrete che alcuni storici di parte…come dire…sudista, parlano di decine di migliaia di soldati, mentre altre piuttosto attendibili fonti parlano di un migliaio (fra cui renitenti alla leva, disertori, colpevoli di altri reati e in seguito alcuni dei famigerati “briganti”). Questo video è composto di due parti, di cui la seconda è dedicata proprio al brigantaggio, nella repressione del quale i piemontesi usarono davvero una mano molto pesante (basta pensare alla durissima legge Pica, che autorizzava in certi casi persino la fucilazione immediata). Certo il Forte di Fenestrelle non era un confortevole albergo e durante l’inverno il freddo doveva essere davvero micidiale a 1.200 metri d’altitudine. Alla mano pesante aggiungete poi malattie e immaginatene le conseguenze. I morti devono essere stati certamente molti, ma sembrerebbero in ogni caso contenibili in alcune centinaia. È rimasta famosa la sprezzante relazione del generale Lamarmora a Cavour: “I prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Di 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prender servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d'occhi e da mali venerei… dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Ieri a taluni che con arroganza pretendevano il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco II, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano di servire, che erano un branco di carogne, che avremmo trovato il modo di metterli alla ragione”.
Un altro luogo di detenzione fu San Maurizio Canavese, ma di dimensioni più ridotte. Lì furono rinchiusi essenzialmente i renitenti alla leva. In ogni caso, sembra proprio che il termine “lager” non si adatti al caso. Lasciamone la paternità a chi spetta di diritto!
Quando finisce la prima parte, aspettate un attimo perché subito dopo inizia la seconda. 
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acquario |
Oggetto: MARIANO SEMMOLA 17 Gen, 2016 - 22:15
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..................e poi vennero a liberarci ...tralasciamo la storia per secoli ce l'hanno propinata inculcata mamomettendola a loro piacimento tanto che un napoletano di oggi per saperla deve ricercarla nelle biblioteche per conoscere CHI ERAVAMO cosa era il REGNO DELLE DUE SICILIE e chi erano i piemontesi rappresentati e guidati dai savoia una stirpe francese in cerca di spazio spietati avventurieri e predatori ....noi napoletani avevamo tutto per essere indipendenti finchè non ci smantellarono tutto per trasferirlo al nord e quando ci fù un opposizione armata dei nostri sparuti eserciti la chiamarono GUERRA AL BRIGANTAGGIO fregiandosi del merito di aver sterminato i bringanti che altro non erano resti di un glorioso esercito ....Cmq sono circa due secoli che il napoletano si sveglia la mattina e deve inventarsi il pranzo e la cena e con il pranzo e la cena inventarsi anche il modo come comprarli ....ecco si inventarsi nessuno sà inventarsi meglio del napoletano ,col tempo ha dovuto aguzzare l'ingegno spremere le meningi e tirare avanti e poichè la fame è impellente quasi sempre l'ingegno è al limite del codice penale questo è per i più ma abbiamo anche menti eccelse che hanno dato lustro a questa NAPOLI tanto bella quanto sfortunata ma mai doma.......Una folta schiera di eccelse menti hanno provveduto a far conoscere al mondo il suo nome sia nell arte che nella medicina e tante altre categorie ...elencarle non bastano fiumi di inchiostro ma ci limitiamo stavolta a parlare del grande MARIANO SEMMOLA non meno geniale di un altro grande ANTONIO CARDARELLI ...di Semmola oggi nn resta altro che un piccolo busto nei giardini di piazza Cavour a Napoli egli fù medico di fiducia del re borbone Francesco I e Ferdinando II a 21anni si laureò in medicina ..a 25 anni tenne una lezione magistrale all Accademia di Medicina di Parigi strappando applausi da tutti i medici mondiali riuniti a 34 anni gli fu data la prima cattedra sperimentaledi medicina nella sua Napoli diventò direttore sanitario dell'Ospedale degli Incurabili a Napoli ...fù deputato ,scienziato,filosofo accademico ed esperto di diritto egli rifiutò diversi incarichi in varie parti del mondo per stare nella sua Napoli morì a Napoli nel 1896 a soli 65 anni
Acquario
Fu
Diventò quindi medico capo dell’Ospedale degli Incurabili, che allora era il luogo nel quale si riunivano le più belle menti dell’intero secolo, e, nel 1888, fu chiamato da Francesco Crispi in persona per redigere il primo regolamento sanitario nazionale della Storia.
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Un ritratto di Mariano Semmola sul giornale “L’Illustrazione Italiana” del 1888, dove si raccontano gli innumerevoli successi del medico napoletano
Non era infatti solo un medico favoloso: Mariano Semmola era anche un grande appassionato di diritto e di filosofia: per tutta la sua vita, infatti, si trovò a combattere per la creazione del Codice Sanitario del 1888, che servì ad ammodernare gli ospedali e, soprattutto, cure anche ai più indigenti.
Si sedette anche nel Parlamento Italiano e si fece promotore di importantissime riforme per l’Università di di Napoli, che, a suo avviso, doveva essere dotata delle attrezzature più moderne per garantire studi di eccellenza.
Poi, il viaggio in Sud America: il Regno di Napoli era già caduto da vent’anni, ma la moglie dell’Imperatore del Brasile era una delle ultime rappresentanti del Regno delle Due Sicilie ancora su di un trono: Teresa Cristina di Borbone, infatti, era la figlia di Francesco I e, nonostante migliaia di chilometri di distanza, rimase assai affezionata a quel bambino prodigio che vide crescere nella sua Napoli: quando si ammalò Pietro II del Brasile, l’imperatrice chiamò immediatamente Semmola che, con un lungo viaggio, giunse a Rio de Janeiro per salvare l’imperatore da una malattia allora sconosciuta.
Poi, tornò a Napoli e, partendo sempre dal suo amato golfo, fu inviato a Washington, Londra, Parigi, Bruxelles, Amsterdam e Vienna come rappresentante dello Stato Italiano nei più prestigiosi incontri internazionali. Gli furono offerti numerosi contratti nelle maggiori accademie mondiali, ma Semmola rifiutò sempre con fermezza le proposte, spiegando che il suo dovere era quello di preparare i futuri medici napoletani.
Medico, scienziato, filosofo, accademico, letterato ed esperto di diritto: Semmola riuniva in una sola persona tutte le eccellenze napoletane. <span style="line-height: 1.5;">Dopo una vita passata a studiare, a viaggiare per il mondo intero a rappresentare il genio napoletano, morì nel 1896 nella Napoli che fu per lui madre, compagna e tomba.
P.S. Una curiosità: a Semmola, per onorare la memoria di uno scienziato tanto importante, fu intitolato proprio il primo tratto di Spaccanapoli. Dopo la morte di Benedetto Croce, la strada fu “strappata” al vecchio proprietario e rinominata in Via Benedetto Croce.
Mariano Semmola fu “trasferito” nel più periferico Rione Alto, dove ancora esiste Via Mariano Semmola. |
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Credo e penso che non tutti conoscono la storia globale del nostro pianeta ma piccole parti di essa ,come anche la storia delle varie città ed anche del perchè di certi nomi dati a delle strade..a volte questi nomi nascondono Quasi una parte di storia della città..come quella di PIAZZA OTTOCALLI a NAPOLI
STORIE DI NAPOLI / Piazza Ottocalli e il rione Sangiovanniello: l’origine del nome e la leggenda della colonna
Prima che Napoli inglobasse nei territori cittadini una parte degli antichi casali, piazza Ottocalli, ed il rione Sangiovanniello, (San Giuvanniello in Napoletano) erano il primo agglomerato urbano della città che il viaggiatore incontrava venendo da Roma, dall’Abruzzo o della Puglia, via Capodichino. Dogana d’entrata della città di Napoli, il quartiere di Sangiovanniello con la piazza già citata, rientrano in quei territori definiti “extra moenia”, cioè, fuori dai confini dell’antica cinta muraria della città. Sono 4 le strade che si incontrano a piazza Ottocalli: Arenaccia, Capodichino, Santi Giovanni e Paolo, e N.Nicolini che porta ai Ponti Rossi. Infatti in passato la piazza veniva riportata anche come il “quadrivio degli Ottocalli”. Ma a cosa devono il nome la piazza ed il rione?In un documento del 1348 appartenente al monastero di Sant’Arpino, si ricorda una terra posta in “Campo dei nostri” e dal contesto si capisce che così veniva chiamato lo spazio della città che andava da Poggioreale ai Ponti Rossi. La strada prende il nome da una chiesa di antica fondazione nel quartiere, che era detta di “San Joannis in Campo”, e in un altro documento dei tempi di Federico II, si riporta come una terra posta fuori dai confini della città, in “Campo de Neapoli, prope et cum facie di Ecclesia San Joannis et Pauli”(1). La strada quindi prende il nome da una chiesa fondata in epoca medievale, quella dei Santi Giovanni e Paolo.Celano nel 1692 scriveva: “Qui vedesi un antica chiesa dedicata ai Santi Giovanni e Paolo…qui vi è una curiosità da notarsi. Avanti di questa chiesa, vi è una colonna: nei tempi andati, quando i contadini avevano siccità , si portavano dal vicario, e questi processionalmente col clero, alla detta chiesa, dalla parte destra della colonna, dicevano l’orazione e la pioggia era evidente: quando volevano impetrare la serenità, facevano lo stesso, ma dalla sinistra. Fu questa dall’Arcivescovo dichiarata superstizione, e come tale abolita.”(2)
La colonna, forse residuo di qualche struttura precristiana, venne fatta rimuovere dall’Arcivescovo Annibale di Capua nel 1590 perché considerata culto pagano, ed alcuni credono che il detto Napoletano di “Mannaggia a’ culonna” sia dovuto proprio alla sua rimozione.La piazza, come già detto, indicava un luogo posto fuori dall’antica cinta muraria della città, e si pensa che l’etimologia di “ottocalli” venga dal fatto che nella stessa piazza si trovasse un ufficio doganale, dove la gente in transito pagava un misero dazio di “otto cavalli” ovvero otto monetine di poco valore che portavano un cavallo inciso, e questa è la versione che conoscono un po’ tutti, anche se un altra fonte riporta che:“Non si può rammentare senza fremere, che nella capitale di questo Regno, la sapienza e l’umanità vice regnale diedero all’estremo supplizio un misero che aveva rubato otto calli (mezzo obolo) in una pubblica strada, che si chiama ancora degli Ottocalli, in memoria della sua sventura.”(3)
A quanto pare la piazza dunque era chiamata così dal numero delle monete che occorrevano per farsi trainare sulla salita Capodichino; le monete erano i tornesi napoletani, di rame, emesse dagli Aragona a Napoli alla metà del XV secolo e battute fino al 1861. Sul percorso si trovava una collina, per superare la quale occorreva noleggiare un “valanzino” (asinello) per aiutare il cavallo. In epoca borbonica questo servizio costava 8 talleri, da cui derivò Piazza Ottocalli. Tuttavia chi noleggiava l’asino non voleva che si sfiancasse, e lo legava con una fibbia in modo che, ad un certo punto, divincolandosi per la fatica, si sganciasse da traino: è la famosa “fibbia e’ sgarro”. Secondigliano era il “secondo miglio” della strada per Roma, a cui seguivano: la Casa Viatoris, la case del viandante (Casavatore), il tempio di Giove nel quale si ristoravao i viaggiatori, un tempio dorato, la Casa Aurea (Casoria), più oltre vi era una cascata d’acqua dal cui rumore “ad fragorem” derivò Afragola.Ai primi dell’ottocento il borgo contava poco più di 1000 abitanti, e “ Gli edifici demoliti o ricostruiti in miglior forma, resero più bella ed ornata questa via, la dove sbocca innanzi al Real albergo dei poveri”. L’agglomerato odierno il quartiere lo deve al risanamento, ma precedentemente, oltre alla via santi Giovanni e Paolo e la piazza Ottocalli, le cartine antiche riportano adiacenti al borgo: la via Marconiglio, via sant’Eframo vecchio, Cupa pozzelle, vico I e II al reclusorio, vico Fornello, ed ovviamente l’Arenaccia ed il borgo Sant’Antonio Abate, quest’ultimo strada principale precedentemente alla costruzione dell’attuale Corso Garibaldi. Si riporta anche la presenza del fondaco S.Giovanniello, probabilmente lo stesso fondaco che nel quartiere viene ancora chiamato “’o palazzo senza porte”, chiamato così per le molteplici entrate senza portoni, oggi, in parte, sede municipale.Personaggio di questo quartiere sicuramente “degnissimo” di nota è Enrico Caruso: “Da questo quartiere al mondo” recita la scritta al di sotto del busto del tenore posto nella piazza. Al numero civico 7 della via santi Giovanni e Paolo si trova la sua casa natale, e poco più avanti si trova una piccolissima e strettissima chiesa poco conosciuta, dove Caruso da piccolo intonò i suoi primi acuti.
Carmine Sadeo
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Margine |
Oggetto: 03 Gen, 2016 - 12:12
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John Snow non solo è il nome di un college e di una società di consulenza per la sanità pubblica, ma anche il nome di un pub di Londra e della piazza su cui esso si affaccia. Se dovessimo passare in questo luogo forse il nome del pub ci potrebbe sfuggire, ma non passerebbe certo inosservato il monumento in onore di John Snow . Diversamente dagli altri monumenti, però, questo non raffigura un busto di un uomo, o un forte cavaliere su un cavallo rampante, ma una semplice fontana a sifone. Quel che lascia un po’ sorpresi, però, è che la fontana manca della indispensabile leva per pompare l’acqua. Un atto vandalico? No è tutto in memoria di un medico.
Ma chi era quest’uomo? Nato nel 1813 in Inghilterra, fu un brillante dottore in medicina che viene oggi ricordato per i suoi studi sui capillari polmonari, per l’invenzione di un inalatore per dosare l’etere somministrato durante l’anestesia e per l’intuizione che un’epidemia di colera che falcidiò la popolazione londinese proveniva dall’acqua contaminata e non dall’aria contaminata come si credeva. Il colera è una malattia terribile, causata da un batterio che spesso veniva ingerito con l’acqua contaminata dalle feci di persone infette. Una volta nell’intestino il batterio produce una tossina che causa una fortissima diarrea, in cui un soggetto può perdere anche 20 litri di acqua in un giorno, con gravissime conseguenze su tutto il corpo, giungendo presto alla morte. La malattia oggi praticamente scomparsa dall’Europa, apparve per la prima volta nel 1831 arrivando dall’India, dove è tutt’ora endemica e causa di centinaia di morti ogni anno. I medici britannici non sapevano in che modo affrontare una malattia così spaventosa e così invariabilmente letale; provarono a somministrare ai pazienti clisteri di tabacco, somministravano loro arsenico e stricnina, applicavano su di loro sanguisughe e acido nitrico ma senza alcun effetto. Non conoscendo la causa della malattia si arrivò ad ipotizzare che derivasse dalla “mal aria”, dei miasmi emanati dai malati e dalle immondizie; un dentista di Londra propose addirittura di risolvere il problema sparando ogni ora con dei cannoni per disperdere l’aria mefitica. Snow all’epoca era un giovane medico e si trovò a curare molte vittime dell’epidemia e non accettò affatto l’idea che la malattia venisse dall’aria; era convinto infatti che la causa era un veleno che agiva sull’intestino provocando quella fortissima diarrea. Non solo, era anche convinto che il veleno venisse introdotto dalla bocca del paziente. Non ci volle molto per sospettare che l’epidemia provenisse dall’acqua quando notò che la città di Birmingham venne risparmiata dal colera. In quel punto, infatti, il fiume era così puzzolente ed inquinato che nessuno si sarebbe sognato di berne l’acqua. Pubblicò così un opuscolo nel 1849 dove spiegava che il colera veniva diffuso attraverso l’acqua contaminata, ma venne in gran parte ignorato dai grandi professori del Royal College che non amavano che un giovane medico mettesse in discussione le loro teorie sui miasmi, e in ogni caso nel 1849 l’epidemia si arrestò.
Nel 1854, però, una nuova epidemia diede una nuova opportunità a Snow di dimostrare le sue idee. Questa volta la maggior parte dei malati erano nel quartiere di Soho e più di cinquecento persone morirono nel giro di dieci giorni in uno spazio ristretto. Snow si procurò subito una carta della città ed iniziò a segnare la posizione delle case in cui c’era almeno un malato di colera e subito venne premiato della sua costanza: la grande concentrazione di puntini era lungo una importante strada chiamata allora “Broad Street”. Non solo, ma lungo la via i puntini si concentravano maggiormente nelle case adiacenti la fontana pubblica, dove molti si approvvigionavano. Il giovane medico scoprì poi che erano morti sette uomini che abitavano fuori dal quartiere ma avevano lavorato alla pompa, venne a sapere anche della morte di una donna che da Soho si era trasferita ad Hampstead e che mandò qualcuno a prendere l’acqua di Soho che si era abituata a bere. Altre osservazioni illuminanti le fece nei confronti degli ebrei, che si ammalavano di meno perchè lavavano le mani più spesso, interrompendo il ciclo oro-fecale del batterio e si convinse ulteriormente delle sue osservazioni quando notò che in una vicina fabbrica di birra nessun operaio si era ammalato poichè non bevevano mai acqua. A questo punto Snow si mise in contatto con gli amministratori della città e, cartina alla mano, spiego loro la situazione, proponendo di togliere la leva alla pompa di Broad Street. La sua proposta venne finalmente accolta e il numero dei malati scese quasi subito a zero. Ecco che si spiega come mai alla pompa del monumento in suo onore manchi la leva.
(da un articolo di Scientificaemente: https://scientificaemente.wordpress.com/2016/01/03/un-pub-una-fontana-ed-il-colera/#more-180)
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Margine |
Oggetto: 22 Nov, 2015 - 16:19
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Le fotografie, a volte, ingannano. Prendete questa immagine, per esempio.

Racconta il gesto di ribellione di Tommie Smith e John Carlos il giorno della premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico e mi ha ingannato un sacco di volte. L’ho sempre guardata concentrandomi sui due uomini neri scalzi, con il capo chino e il pugno guantato di nero verso il cielo, mentre suona l’inno americano. Un gesto simbolico fortissimo, per rivendicare la tutela dei diritti delle popolazioni afroamericane in un anno di tragedie come la morte di Martin Luther King e Bob Kennedy. È la foto del gesto storico di due uomini di colore. Per questo non ho mai osservato troppo quell’uomo, bianco come me, immobile sul secondo gradino.
L’ho considerato una presenza casuale, una comparsa, una specie di intruso. Anzi, ho perfino creduto che quel tizio – doveva essere un inglese smorfioso – rappresentasse, nella sua glaciale immobilità, la volontà di resistenza al cambiamento che Smith e Carlos invocavano con il loro grido silenzioso. Invece sono stato ingannato. Grazie a un vecchio articolo di Gianni Mura, oggi ho scoperto la verità: l’uomo bianco nella foto è, forse, l’eroe più grande emerso da quella notte del 1968. Si chiamava Peter Norman, era australiano e arrivò alla finale dei 200 metri dopo aver corso un fantastico 20.22 in semifinale. Solo i due americani Tommie “The Jet” Smith e John Carlos avevano fatto meglio: 20.14 il primo e 20.12 il secondo. La vittoria si sarebbe decisa tra loro due, Norman era uno sconosciuto cui giravano bene le cose. John Carlos, anni dopo, disse di essersi chiesto da dove fosse uscito quel piccoletto bianco. Un uomo di un metro settantotto che correva veloce come lui e Smith, che superavano entrambi il metro e novanta. Arrivò la finale e l’outsider Peter Norman corse la gara della vita, migliorandosi ancora. Chiuse in 20.06, sua prestazione migliore di sempre e record australiano ancora oggi imbattuto, a 47 anni di distanza. Ma quel record non bastò, perché Tommie Smith era davvero “The jet” e rispose con il record del mondo. Abbatté il muro dei venti secondi, primo uomo della storia, chiudendo in 19.82 e prendendosi l’oro. John Carlos arrivò terzo di un soffio, dietro la sorpresa Norman, unico bianco in mezzo ai fuoriclasse di colore. Fu una gara bellissima, insomma. Eppure quella gara non sarà mai ricordata quanto la sua premiazione.
Non passò molto dalla fine della corsa perché si capisse che sarebbe successo qualcosa di forte, di inaudito, al momento di salire sul podio. Smith e Carlos avevano deciso di portare davanti al mondo intero la loro battaglia per i diritti umani e la voce girava tra gli atleti. Norman era un bianco e veniva dall’Australia, un paese che aveva leggi di apartheid dure quasi come quelle sudafricane. Anche in Australia c’erano tensioni e proteste di piazza a seguito delle pesanti restrizioni all’immigrazione non bianca e leggi discriminatorie verso gli aborigeni, tra cui le tremende adozioni forzate di bambini nativi a vantaggio di famiglie di bianchi. I due americani chiesero a Norman se lui credesse nei diritti umani. Norman rispose di sì. Gli chiesero se credeva in Dio e lui, che aveva un passato nell’esercito della salvezza, rispose ancora sì. “Sapevamo che andavamo a fare qualcosa ben al di là di qualsiasi competizione sportiva e lui disse “sarò con voi” – ricorda John Carlos – Mi aspettavo di vedere paura negli occhi di Norman, invece ci vidi amore”. Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio portando al petto uno stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, un movimento di atleti solidali con le battaglie di uguaglianza. Avrebbero ritirato le medaglie scalzi, a rappresentare la povertà degli uomini di colore. E avrebbero indossato i famosi guanti di pelle nera, simbolo delle lotte delle Pantere Nere. Ma prima di andare sul podio si resero conto di avere un solo paio di guanti neri. “Prendetene uno a testa” suggerì il corridore bianco e loro accettarono il consiglio. Ma poi Norman fece qualcos’altro. “Io credo in quello in cui credete voi. Avete uno di quelli anche per me?“ chiese indicando lo stemma del Progetto per i Diritti Umani sul petto degli altri due. “Così posso mostrare la mia solidarietà alla vostra causa”. Smith ammise di essere rimasto stupito e aver pensato: “Ma che vuole questo bianco australiano? Ha vinto la sua medaglia d’argento, che se la prenda e basta!”. Così gli rispose di no, anche perché non si sarebbe privato del suo stemma. Ma con loro c’era un canottiere americano bianco, Paul Hoffman, attivista del Progetto Olimpico per i Diritti Umani. Aveva ascoltato tutto e pensò che “se un australiano bianco voleva uno di quegli stemmi, per Dio, doveva averlo!”. Hoffman non esitò: “Gli diedi l’unico che avevo: il mio”. I tre uscirono sul campo e salirono sul podio: il resto è passato alla storia, con la potenza di quella foto. “Non ho visto cosa succedeva dietro di me – raccontò Norman – Ma ho capito che stava andando come avevano programmato quando una voce nella folla iniziò a cantare l’inno Americano, ma poi smise. Lo stadio divenne silenzioso”. Il capo delegazione americano giurò che i suoi atleti avrebbero pagato per tutta la vita quel gesto che non c’entrava nulla con lo sport. Immediatamente Smith e Carlos furono esclusi dal team americano e cacciati dal villaggio olimpico, mentre il canottiere Hoffman veniva accusato pure lui di cospirazione. Tornati a casa i due velocisti ebbero pesantissime ripercussioni e minacce di morte. Ma il tempo, alla fine, ha dato loro ragione e sono diventati paladini della lotta per i diritti umani. Sono stati riabilitati, collaborando con il team americano di atletica e per loro è stata eretta una statua all’Università di San José. In questa statua non c’è Peter Norman. Quel posto vuoto sembra l’epitaffio di un eroe di cui nessuno si è mai accorto. Un atleta dimenticato, anzi, cancellato, prima di tutto dal suo paese, l’Australia. Quattro anni dopo Messico 1968, in occasione delle Olimpiadi di Monaco, Norman non fu convocato nella squadra di velocisti australiani, pur avendo corso per ben 13 volte sotto il tempo di qualificazione dei 200 metri e per 5 sotto quello dei 100. Per questa delusione, lasciò l’atletica agonistica, continuando a correre a livello amatoriale. In patria, nell’Australia bianca che voleva resistere al cambiamento, fu trattato come un reietto, la famiglia screditata, il lavoro quasi impossibile da trovare. Fece l’insegnante di ginnastica, continuò le sua battaglie come sindacalista e lavorò saltuariamente in una macelleria. Un infortunio gli causò una grave cancrena e incorse in problemi di depressione e alcolismo. Come disse John Carlos “Se a noi due ci presero a calci nel culo a turno, Peter affrontò un paese intero e soffrì da solo”. Per anni Norman ebbe una sola possibilità di salvarsi: fu invitato a condannare il gesto dei suoi colleghi Tommie Smith e John Carlos, in cambio di un perdono da parte del sistema che lo aveva ostracizzato. Un perdono che gli avrebbe permesso di trovare un lavoro fisso tramite il comitato olimpico australiano ed essere parte dell’organizzazione delle Olimpiadi di Sidney 2000. Ma lui non mollò e non condannò mai la scelta dei due americani. Era il più grande sprinter australiano mai vissuto e detentore del record sui 200, eppure non ebbe neppure un invito alle Olimpiadi di Sidney. Fu il comitato olimpico americano, una volta scoperta la notizia a chiedergli di aggregarsi al proprio gruppo e a invitarlo alla festa di compleanno del campione Michael Johnson per cui Peter Norman era un modello e un eroe. Norman morì improvvisamente per un attacco cardiaco nel 2006, senza che il suo paese lo avesse mai riabilitato. Al funerale Tommie Smith e John Carlos, amici di Norman da quel lontano 1968, ne portarono la bara sulle spalle, salutandolo come un eroe. “Peter è stato un soldato solitario. Ha scelto consapevolmente di fare da agnello sacrificale nel nome dei diritti umani. Non c’è nessuno più di lui che l’Australia dovrebbe onorare, riconoscere e apprezzare” disse John Carlos. “Ha pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie Smith – Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa cosa”. Solo nel 2012 il Parlamento Australiano ha approvato una tardiva dichiarazione per scusarsi con Peter Norman e riabilitarlo alla storia con queste parole: “Questo Parlamento riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman che vinse la medaglia d’argento nei 200 metri a Città del Messico, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano. Riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare il simbolo del Progetto OIimpico per i Diritti umani sul podio, in solidarietà con Tommie Smith e John Carlos, che fecero il saluto del “potere nero”. Si scusa tardivamente con Peter Norman per l’errore commesso non mandandolo alle Olimpiadi del 1972 di Monaco, nonostante si fosse ripetutamente qualificato e riconosce il potentissimo ruolo che Peter Norman giocò nel perseguire l’uguaglianza razziale”. Ma, forse, le parole che ricordano meglio di tutti Peter Norman sono quelle semplici eppure definitive con cui lui stesso spiegò le ragioni del suo gesto, in occasione del film documentario “Salute”, girato dal nipote Matt. “Non vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso pullman o andare alla stessa scuola di un uomo bianco. Era un’ingiustizia sociale per la qualche nulla potevo fare da dove ero, ma certamente io la detestavo. È stato detto che condividere il mio argento con tutto quello che accadde quella notte alla premiazione abbia oscurato la mia performance. Invece è il contrario. Lo devo confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne parte”.
(Riccardo Gazzaniga)
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