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assodipicche |
Oggetto: 5 novembre 1605, Londra, la Congiura delle polveri. 04 Nov, 2020 - 17:15
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I congiurati
Qualcuno dirà: “Beh, ma che c’entra adesso un cospiratore inglese del ‘600 con le vicende odierne!”. Sarà, ma io qualche nesso ce lo vedo. Intanto, alla base c’è la religione. Poi c’è l’accostamento terroristico e infine la ricorrenza del 5 novembre mi ha fatto venire il mente la filastrocca dei ragazzini inglesi(di una volta): “Remember, remember the fifth of November/a penny for the Guy...”. Oggi, quando accadono questi fatti, i terroristi quasi sempre vengono uccisi dalle squadre speciali oppure catturati e processati, ma allora erano un tantino più drastici! Passiamo alla vicenda:
Correva l’anno 1605 (gli anni vanno sempre correndo!) e sul trono del Regno Unito (“unito” proprio da lui) sedeva Re Giacomo I°, figlio di Maria Stuarda regina di Scozia. Malgrado fossero passati alcuni decenni dallo Scisma anglicano e la rottura col Papa, i contrasti religiosi non erano per niente placati. E infatti un gruppo di complottisti cattolici (non troppo caritatevoli) elaborò un piano per far saltare in aria il Parlamento inglese insieme col re. Della sua esecuzione fu incaricato un certo Guy Fawkes. In un sotterraneo adiacente alla sede del Parlamento vennero stipati dei barili di polvere (da qui il nome di “congiura delle polveri”) che Fawkes doveva far saltare in aria. Ma ci fu una spiata e lui venne arrestato poco prima che potesse dar fuoco alla miccia. Ovviamente venne torturato a lungo e duramente, fino a quando non svelò i nomi dei dodici complici. E vediamo ora come trattavano in quel tempo cospiratori e terroristi. La sentenza stabilì che dovessero essere impiccati e poi accuratamente squartati. I loro resti vennero poi inviati i giro per tutto il regno a monito severo e perpetuo per chi nutrisse analoghe intenzioni.
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L'esecuzione dei congiurati
Questa storia venne naturalmente sfruttata contro i cattolici (che se l'erano meritata!) e si stabilì che il 5 novembre dovesse essere ricordato con l’accensione di falò su cui veniva bruciato un pupazzo (Bonfire Night, la notte dei falò). Col tempo naturalmente queste usanze hanno perso la loro originaria acrimonia e sono diventate tradizione popolare sempre più sfumata.
Ma negli anni 80 del secolo scorso un disegnatore americano ha riesumato questa storia e disegnato una maschera che tutti abbiamo certamente visto, la maschera V (V per Vendetta), che è diventata simbolo di rivolta antisistema, la maschera di Guy Fawkes. Eccola, la V è stilizzata e resa da baffi e pizzetto:
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La maschera di Guy Fawkes o maschera V
Infine una curiosità etimologica: la parola del lessico comune inglese "guy" è un eponimo che deriva proprio da Guy Fawkes. Inizialmente Guy era solo un nome di persona, maschile (“Guido”), poi dal pupazzo dei falò ha preso il significato di personaggio dall’aspetto grottesco, quindi è stato usato per descrivere uomini vestiti in modo insolito, finché nel XIX secolo ha assunto il significato generico di uomo, dell’inglese moderno. Ora guy ha il significato di "tipo", "tizio", "ragazzo" e, soprattutto nel discorso diretto informale, si applica a tutti e al plurale (ad es. You guys...”Ehi ragazzi!”).
Quel gruppetto di cospiratori era costituito anche da personaggi più noti e importanti di lui, ma chi ha colpito la fantasia popolare è stato soprattutto lui, Guy Fawkes! Remember...remember....the Fifht of November!
Fine della storia. |
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assodipicche |
Oggetto: Taranto e il Conte di Montecristo 28 Set, 2020 - 16:36
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Ma davvero Taranto ha qualcosa a che fare con Il Conte di Montecristo? Sembra proprio di sì! Chi non conosce i Dumas, padre e figlio!? Il primo autore del ciclo de I Tre Moschettieri e di tanti altri romanzi quali appunto Il Conte di Montecristo. Il secondo ci ricorda “La signora delle camelie”, ma anche tanti altri lavori. Pochi però sanno del capostipite dei Dumas, voglio dire del padre di Dumas-padre , il Generale napoleonico Thomas- Alexandre Dumas, uomo imponente e soldato valoroso, ma tipo orgoglioso, che non riusciva a tenere a freno la lingua, cosa che causò la sua rovina.

La sua infanzia non era stata delle più felici. Il cognome della sua famiglia non era Dumas, ma Davy de la Pailleterie. Suo padre era un aristocratico francese avventuroso e spregiudicato. Aveva trascorso da giovane un periodo nell’ odierna Haiti, e lì aveva avuto dei figli (mulatti) da una schiava nera, che dopo qualche anno era morta. Questa donna aveva nome e cognome, ma veniva comunemente chiamata “la femme du mas”, più o meno “la donna della masseria”. Alla sua morte il nostro stravagante personaggio che fa? Vende i figli come schiavi per pagarsi il viaggio e torna in Francia, riservandosi però il diritto di riscattare il primogenito. E infatti dopo qualche anno -racimolati un po' di soldi- torna ad Haiti, lo riscatta e se lo porta in Francia, dove il ragazzino cresce e studia e nel 1786 decide di arruolarsi cambiando però cognome: non si chiamerà più pomposamente come il padre, ma col semplice appellativo della madre (du mas) e così diventa il primo dei Dumas. Come dicevamo, è imponente, valoroso e carismatico e diventa presto generale. Napoleone se lo porta con sé nella spedizione in Egitto. Non si sa come siano andate esattamente le cose, certo è che cade in disgrazia, pare per averlo criticato, e Napoleone, permaloso com'è, s’infuria e lo congeda. Deve quindi ritornare in patria. Durante il viaggio verso la Francia la sua nave si trova nel bel mezzo di una furiosa tempesta ed è costretta ad approdare a Taranto, che però nel frattempo è tornata sotto il dominio borbonico. E così viene arrestato e segregato nel cupo castello aragonese. Corre l’anno 1799. I Borboni sono in guerra con la Francia e lo tengono in ostaggio. Durante la prigionia ne passa di tutti i colori, compreso un tentativo di avvelenamento con l’arsenico. Napoleone potrebbe chiederne il riscatto, ma non lo fa. Resta quindi in cella a Taranto per due anni e quando esce vede solo da un occhio e sente solo da un orecchio; è veramente messo male e si regge a malapena appoggiandosi a un bastone. Riesce comunque a tornare in Francia, dove, dopo qualche anno muore. Il futuro scrittore (definitivamente Dumas) ha quattro anni e questa vicenda gli ispirerà la vicenda di Edmond Dantès ne Il Conte di Montecristo. Almeno così dicono. Una storia davvero incredibile, che mi ricorda tra l'altro che a Taranto ha soggiornato ed è morto un altro generale napoleonico: Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, l’autore di un capolavoro della letteratura francese, allora considerato scandaloso: “Les liaisons dangereuses” (Le relazioni pericolose), ma per oggi mi fermo qui. Perché ne ho parlato? Perché a Taranto è stata aperta una mostra sull’argomento proprio nel luogo in cui il nostro personaggio è rimasto in prigione, il Castello Aragonese. Durerà fino a febbraio.
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cicuta |
Oggetto: così Bologna sconfisse la peste 15 Apr, 2020 - 22:04
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https://incronaca.unibo.it/archivio/2020/03/24/201cosi-bologna-sconfisse-la-peste-del-300
Bologna continua ad essere ferma, così come il resto d’Italia. Anche qui, infatti, sono sempre di più le attività che si vedono costrette ad andare in pausa, nel tentativo di mettere un freno alla diffusione del Covid-19 e riprendere così quanto prima quello che prima chiamavamo quotidianità. Un’epidemia senza precedenti, ma certo non la prima.
Nel ‘300 ci fu la peste nera, arrivata dalla Cina e capace di mettere in ginocchio l’Europa intera, uccidendo un terzo della popolazione. Da sottolineare anche la successiva peste del 1630, che in Italia ebbe uno dei punti di maggiore impatto;si diffuse tra il 1629 e il 1633 spiega Marco Poli, storico bolognese. «All’inizio ci fu tanta superstizione. Si pensava che fosse un flagello di Dio, oppure che l’avessero portata le streghe e gli untori. Oggi queste verrebbero etichettate come semi fake news, perché se da una parte è chiaro che la causa non fossero le streghe, dall’altra va anche detto che molte donne vennero bruciate in quanto ritenute colpevoli.
Non fu una epidemia paragonabile a quella del ‘300, ma la peste del 1630 in Italia fece comunque un numero di vittime non trascurabile. Colpendo solamente la parte settentrionale del paese, si pensa che su una popolazione di quattro milioni il morbo uccise oltre un milione di persone.
A Bologna ci furono 15 mila morti, ma fu una delle città che si difese meglio. Il merito va sicuramente dato al cardinal legato Bernardino Spada, il sindaco di allora, che tentò in ogni modo di impedire il contagio», aggiunge Poli. Un personaggio importante nella storia di Bologna, che in un tempo in cui la tecnologia non aiutava il progresso riuscì comunque a capire come la diffusione del virus avvenisse per contatto. Ma non solo tra persone, anche attraverso le merci.
«A Milano il gran cancelliere Ferrer mise a morte dodici untori, mentre sotto le Due Torri Spada creò un sistema di aggiornamento di notizie per rintracciare la provenienza del virus. Oggi lo chiameremmo Tg quotidiano, ma quattrocento anni fa era diverso. Fu qualcosa di davvero innovativo». La raccolta dati non poteva però bastare. Mappare il virus è un’azione molto utile, ma solo se viene utilizzata per lavorare su possibili soluzioni. In questi giorni si affronta il Covid-19, decidendo di chiudere fabbriche e negozi e mettendo la popolazione in quarantena.
Decisioni senza precedenti? Non proprio: «Bernardino Spada rafforzò i controlli in prossimità delle dodici porte» - rimarca Poli - «lasciandone operative solamente alcune, tra cui Porta San Felice, Porta Maggiore e Porta San Vitale. Un sistema per difendersi, che per fortuna non è mai stato utilizzato in guerra ma che ha dato una grossa mano a impedire che le varie epidemie sterminassero i cittadini bolognesi». Non solo. La Bologna del 1600 era un centro che viveva di commercio e quindi di scambi. Avendo capito che il virus poteva entrare proprio attraverso le merci, il cardinal legato Spada cercò il modo di selezionare cosa potesse entrare all’interno delle mura e cosa invece no. «Non si poteva chiudere del tutto le entrate, ma c’era la necessità di sapere da dove arrivassero i prodotti.
È per questa ragione che si giunse alla creazione della Fede di sanità, un documento che accompagnasse le merci, specificandone i dati di provenienza». La moderna bolla, insomma, un metodo usato ancora adesso per tracciare i prodotti.
Fu l’insieme di questi provvedimenti che permise alla città emiliana di sopravvivere fino al febbraio del 1631, quando il virus lasciò finalmente Bologna. Furono anni difficili soprattutto per le donne e i bambini, costretti a restare nelle proprie case per oltre quattro mesi. Allo stesso tempo crebbero le razzie, gli atti vandalici e con questi pure le condanne a morte. Alla fine Bologna riuscì comunque a liberarsi del morbo e non lo fece più tornare. «Per un po’ si diede fuoco anche alle lettere, che potevano essere portatrici del morbo. Ma a salvare i bolognesi furono le mura, che giocarono un ruolo primario nell’impedire al male di diffondersi. Senza queste la città intera sarebbe stata distrutta» |
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assodipicche |
Oggetto: Trent'anni fa in Romania: una rivoluzione dimenticata 18 Dic, 2019 - 17:39
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Noto ancora una certa, nostrana, ritrosia a ricordare eventi storici che pure hanno segnato il destino di popoli, scoperchiando la dura realtà di certi "paradisi" che nascondevano ben altro. Trent'anni fa, il 25 dicembre del 1989 (me lo ricordo perfettamente), dopo un processo sommario, venivano fucilati in Romania il Presidente Nicolae Ceausescu e sua moglie Elena. Finivano così 40anni di dittatura di stampo nord-coreano, ottusa, feroce e sanguinaria. Trent'anni sono tanti e ci sono giovani che non ne hanno neppure sentito parlare. Ma anche negli adulti certi ricordi svaniscono. E gli attivisti, che si preoccupano di provvedere a rinverdirli con i consueti rituali, ne celebrano alcuni e ne trascurano altri. Come questo. E allora chiediamoci: come si viveva nella Romania di Ceausescu, paradiso comunista? Ce ne parla Francesco Battistini sul Corriere. Eccovene un brano. "I romeni sono il popolo più fatalista del mondo, diceva Emil Cioran, ma quel 21 dicembre 1989 il destino se lo fabbricarono da soli. Calpestati, depredati, stuprati; nessun paradiso comunista toccò mai quei punti d’inferno: senza luce e senza riscaldamento, una paranoia nordcoreana dove si collettivizzavano le campagne e deportavano i contadini. I piccoli disabili poco utili al socialismo erano abbandonati con le camicie di forza in orfanotrofi pieni di topi: si calcola che ne morirono almeno 20mila. La «polizia mestruale» sorvegliava le donne perché non provassero ad abortire. Un Paese di schiavi costretti alla fame, per soddisfare Zio Nicu: un megalomane capace di costruirsi il secondo palazzo più grande del mondo dopo il Pentagono, una Versailles da un migliaio di saloni con marmi, cristalli, parquet intarsiati e tende filate d’oro. Un popolo a libro paga della Securitate e che stipendiava il terrorismo internazionale, Br comprese: tutti spiavano tutti, ogni 50 cittadini c’era un agente dei servizi, i bambini venivano educati a denunciare i genitori. Negli Usa, per curare i traumi subìti dagli adolescenti dopo le stragi delle scuole, s’usano ancora adesso gli studi sullo stress dei piccoli romeni anni ’80. Perché quello era un mondo in cui sembravano vere anche le bugie, e di generazione in generazione si sbroccava: «Io ero bambina», racconta Loana Ioana, giornalista culturale, «ma quell’angoscia me la ricordo. Una volta ero su un bus di Bucarest con mia mamma. Sentii qualcuno che parlava male dei capitalisti. E siccome non sapevo cosa fossero e credevo si trattasse degli abitanti della capitale, dissi ad alta voce: “Ma anche noi siamo capitalisti!...!". Per una battuta così, tutta la famiglia rischiava la galera…»".
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assodipicche |
Oggetto: Ma i partigiani cantavano davvero "Bella ciao"? 06 Dic, 2019 - 17:24
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di Luigi Morrone sul "Il Corriere della Sera"
Gianpaolo Pansa: «Bella ciao. È una canzone che non è mai stata dei partigiani, come molti credono, però molto popolare». Giorgio Bocca: «Bella ciao … canzone della Resistenza e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l’una né l’altra nate dai partigiani o dai fascisti, l’una presa in prestito da un canto dalmata, l’altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell’Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto». La voce “ufficiale” e quella “revisionista” della storiografia divulgativa sulla Resistenza si trovano concordi nel riconoscere che “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani. Ma qual è la verità? «Bella ciao» fu cantata durante la guerra civile? È un prodotto della letteratura della Resistenza o sulla Resistenza, secondo la distinzione a suo tempo operata da Mario Saccenti? In “Tre uomini in una barca: (per tacer del cane)” di Jerome K. Jerome c’è un gustoso episodio: durante una gita in barca, tre amici si fermano ad un bar, alle cui parete era appesa una teca con una bella trota che pareva imbalsamata. Ogni avventore che entra, racconta ai tre forestieri di aver pescato lui la trota, condendo con mille particolari il racconto della pesca. Alla fine dell’episodio, la teca cade e la trota va in mille pezzi. Era di gesso. Situazione più o meno simile leggendo le varie ricostruzioni della storia di quello che viene presentato come l’inno dei partigiani. Ogni “testimone oculare” ne racconta una diversa. Lo cantavano i partigiani della Val d’Ossola, anzi no, quelli delle Langhe, oppure no, quelli dell’Emilia, oppure no, quelli della Brigata Maiella. Fu presentata nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”. E così via. Ed anche sulla storia dell’inno se ne presenta ogni volta una versione diversa. Negli anni 60 del secolo scorso, fu avvalorata l’ipotesi che si trattasse di un canto delle mondine di inizio XX secolo, a cui “I partigiani” avrebbero cambiato le parole. In effetti, una versione “mondina” di “Bella ciao” esiste, ma quella versione, come vedremo, fa parte dei racconti dei pescatori presunti della trota di Jerome. Andiamo con ordine. Già sulla melodia, se ne sentono di tutti i colori.È una melodia genovese, no, anzi, una villanella del 500, anzi no, una nenia veneta, anzi no, una canzone popolare dalmata … Tanto che Carlo Pestelli sostiene: «Bella ciao è una canzone gomitolo in cui si intrecciano molti fili di vario colore» Sul punto, l’unica certezza è che la traccia più antica di una incisione della melodia in questione è del 1919, in un 78 giri del fisarmonicista tzigano Mishka Ziganoff, intitolato “Klezmer-Yiddish swing music”. Il Kezmer è un genere musicale Yiddish in cui confluiscono vari elementi, tra cui la musica popolare slava, perciò l’ipotesi più probabile sull’origine della melodia sia proprio quella della canzone popolare dalmata, come pensa Bocca. Vediamo, invece, il testo “partigiano”. Quando comparve la prima volta? Qui s’innestano i racconti “orali” che richiamano alla mente la trota di Jerome. Ognuno la racconta a modo suo. La voce “Bella ciao” su Wikipedia contiene una lunga interlocuzione in cui si racconta di una “scoperta” documentale nell’archivio storico del Canzoniere della Lame che proverebbe la circolazione della canzone tra i partigiani fra l’Appennino Bolognese e l’Appennino Modenese, ma i supervisori dell’enciclopedia online sono stati costretti a sottolineare il passo perché privo di fonte. Non è privo di fonte, è semplicemente falso: nell’archivio citato da Wikipedia non vi è alcuna traccia documentale di “Bella ciao” quale canto partigiano. Al fine di colmare la lacuna dell’assenza di prove documentali, per retrodatare l’apparizione della canzone partigiana, molti richiamano la “tradizione orale”, che – però – specie se di anni posteriore ai fatti, è la più fallace che possa esistere. Se si va sul Loch Ness, c’è ancora qualcuno che giura di aver visto il “mostro” passeggiare sul lago …Viceversa, non vi è alcuna fonte documentale che attesti che “Bella ciao” sia stata mai cantata dai partigiani durante la guerra. Anzi, vi sono indizi gravi, precisi e concordanti che portano ad escludere tale ipotesi. Tra i partigiani circolavano fogli con i testi delle canzoni da cantare, ed in nessuno di questi fogli è contenuto il testo di Bella ciao. Si è sostenuto che il canto fosse stato adottato da alcune brigate e che fosse addirittura l’inno della Brigata Maiella. Sta di fatto che nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come “inno”. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: “Inno della lince”. Mancano – dunque – documenti coevi, ma neanche negli anni dell’immediato dopoguerra si ha traccia di questo canto “partigiano”. Non vi è traccia di Bella ciao in Canta Partigiano edito dalla Panfilo nel 1945. Né conosce Bella ciao la rivista Folklore che nel 1946 dedica ai canti partigiani due numeri, curati da Giulio Mele. Non c’è Bella ciao nelle varie edizioni del Canzoniere Italiano di Pasolini, che pure contiene una sezione dedicata ai canti partigiani. Nella agiografia della guerra partigiana di Roberto Battaglia, edita nel 1953, vi è ampio spazio al canto partigiano. Non vi è traccia di “Bella ciao”. Neanche nella successiva edizione del 1964, Battaglia, pur ampliando lo spazio dedicato al canto partigiano ed introducendo una corposa bibliografia in merito, fa alcuna menzione di “Bella ciao”. Eppure, il canto era stato già pubblicato. È infatti del 1953 la prima presentazione Bella ciao, sulla Rivista “La Lapa” a cura di Alberto Mario Cirese. Si dovrà aspettare il 1955 perché il canto venga inserito in una raccolta: Canzoni partigiane e democratiche, a cura della commissione giovanile del PSI. Viene poi inserita dall’Unità il 25 aprile 1957 in una breve raccolta di canti partigiani e ripresa lo stesso anno da Canti della Libertà, supplemento al volumetto Patria Indifferente, distribuito ai partecipanti al primo raduno nazionale dei partigiani a Roma. Nel 1960, la Collana del Gallo Grande delle edizioni dell’Avanti, pubblica una vasta antologia di canti partigiani. Il canto viene presentato con il titolo O Bella ciao a p. 148, citando come fonte la raccolta del 1955 dei giovani socialisti di cui si è detto e viene presentata come derivata da un’aria “celebre” della Grande Guerra, che “Durante la Resistenza raggiunse, in poco tempo, grande diffusione”. Nonostante questa enfasi, non c’è Bella ciao nella raccolta di Canti Politici edita da Editori Riuniti nel 1962, in cui sono contenuti ben 62 canti partigiani. Sulla presentazione di Bella ciao nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace” non vi sono elementi concreti a sostegno. Carlo Pestelli racconta: «A Praga, nel 1947, durante il primo Festival mondiale della gioventù e degli studenti, un gruppo di ex combattenti provenienti dall’Emilia diffuse con successo Bella ciao. In quell’occasione, migliaia di delegati provenienti da settanta Paesi si riunirono nella capitale ceca e alcuni testimoni hanno raccontato che, grazie al battimani corale, Bella ciao s’impose al centro dell’attenzione», omettendo – però – di citare la fonte, onde non si sa da dove tragga la notizia. Sta di fatto, che nei resoconti dell’epoca non si rinviene nulla di tutto ciò: L’Unità dedica alla rassegna l’apertura del 26 luglio 1947, con il titolo “La Capitale della gioventù”. Nessun accenno alla presentazione del canto. Come si è detto, sul piano documentale, non si ha “traccia” di Bella ciao prima del 1953, momento in cui risulta comunque piuttosto diffusa, visto che da un servizio di Riccardo Longone apparso nella terza pagina dell’Unità del 29 aprile 1953, apprendiamo che all’epoca la canzone è conosciuta in Cina ed in Corea. La incide anche Yves Montand, ma la fortuna arriderà più tardi a questa canzone oggi conosciuta come inno partigiano per antonomasia. Come dice Bocca, sarà il Festival di Spoleto a consacrarla. Nel 1964, il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi come canto partigiano all’interno dello spettacolo omonimo e presenta Giovanna Daffini, una musicista ex mondina, che canta una versione di “Bella ciao” che descrive una giornata di lavoro delle mondine, sostenendo che è quella la versione “originale” del canto, cui durante la resistenza sarebbero state cambiate le parole adattandole alla lotta partigiana. Le due versioni del canto aprono e chiudono lo spettacolo. La Daffini aveva presentato la versione “mondina” di Bella ciao nel 1962 a Gianni Bosio e Roberto Leydi, dichiarando di averla sentita dalle mondine emiliane che andavano a lavorare nel vercellese, ed il Nuovo Canzoniere Italiano aveva dato credito a questa versione dei fatti. Sennonché, nel maggio 1965, un tale Vasco Scansiani scrive una lettera all’Unità in cui rivendica la paternità delle parole cantate dalla Daffini, sostenendo di avere scritto lui la versione “mondina” del canto e di averlo consegnato alla Daffini (sua concittadina di Gualtieri) nel 1951. L’Unità, pressata da Gianni Bosio, non pubblica quella lettera, ma si hanno notizie di un “confronto” tra la Daffini e Scansiani in cui la ex mondina avrebbe ammesso di aver ricevuto i versi dal concittadino. Da questo intreccio, parrebbe che la versione “partigiana” avrebbe preceduto quella “mondina”. Nel 1974, salta fuori un altro presunto autore del canto, un ex carabiniere toscano, Rinaldo Salvatori, che in una lettera alle edizioni del Gallo, racconta di averla scritta per una mondina negli anni 30, ma di non averla potuta depositare alla SIAE perché diffidato dalla censura fascista. La contraddittorietà delle testimonianze, l’assenza di fonti documentali prima del 1953, rendono davvero improbabile che il canto fosse intonato durante la guerra civile.Cesare Bermani sostiene che il canto fosse “poco diffuso” durante la Resistenza, onde, rifacendosi ad Hosmawm, assume che nell’immaginario collettivo “Bella ciao” sia diventata l’inno della Resistenza mediante l’invenzione di una tradizione. Sta di fatto che lo stesso Bermani, oltre ad avvalorare l’inattendibile ipotesi che fosse l’inno della Brigata Maiella, da un lato, riconosce che, prima del successo dello spettacolo al Festival di Spoleto «si riteneva, non avendo avuto questo canto una particolare diffusione al Nord durante la Resistenza, che fosse sorto nell’immediato dopoguerra», dall’altro, però, raccoglie svariate testimonianze che attesterebbero una sua larga diffusione durante la guerra civile, smentendo di fatto sé stesso. Il problema è che le testimonianze a cui fa riferimento Bermani per avvalorare l’ipotesi di una diffusione, sia pur “scarsa”, di “Bella ciao” durante la guerra civile, sono contraddittorie e raccolte a distanza di svariati anni dalla fine di essa (la prima è del 1964 …), con una conseguente scarsa attendibilità. Dunque, se di invenzione di una tradizione si tratta, è inventata la sua origine in tempo di guerra. Ritornando al punto di partenza, come sostengono Bocca e Panza, “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani. Ma il mito di “Bella ciao” come “canto partigiano” è così radicato, da far accompagnare il funerale di Giorgio Bocca proprio con quel canto che egli stesso diceva di non aver mai cantato né sentito cantare durante la lotta partigiana. Perché “Bella ciao”, nonostante tutto, è diventata il simbolo della Resistenza, superando sin da subito i confini nazionali? Perché ha attecchito questa “invenzione della tradizione”? Qualcuno ha sostenuto che il successo di “Bella ciao” deriverebbe dal fatto che non è “targata”, come potrebbe essere “Fischia il vento”, il cui rosso “Sol dell’Avvenir” rende il canto di chiara marca comunista. “Bella ciao”, invece, abbraccerebbe tutte le “facce” della Resistenza (Guerra patriottica di liberazione dall’esercito tedesco invasore; guerra civile contro la dittatura fascista; guerra di classe per l’emancipazione sociale), come individuate da Claudio Pavone. Ma, probabilmente, ha ragione Gianpaolo Pansa: «(Bella ciao) viene esibita di continuo ogni 25 aprile. Anche a me piace, con quel motivo musicale agile e allegro, che invita a cantarla». Il successo di “Bella ciao” come “inno” di una guerra durante la quale non fu mai cantata, plausibilmente, deriva dalla orecchiabilità del motivo, dalla facilità di memorizzazione del testo, dalla “trovata” del Nuovo Canzoniere di introdurre il battimani. Insomma, dalla sua immediata fruibilità.
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franco37 |
Oggetto: Re: Com'erano i grandi personaggi? 02 Nov, 2019 - 14:50
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assodipicche ha scritto:
In Olanda, presso il Museo Nazionale dell'Antichità di Leiden (Leida), un gruppo di ricercatori, con l'ausilio delle moderne tecnologie, cerca di dare un volto a famosi personaggi del passato.
Quella che vedete qui nella foto è la ricostruzione del presumibile volto di uno dei più famosi personaggi dell'antichità. Qualcuno vuol provare a indovinare di chi si tratta?
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assodipicche |
Oggetto: La strage di Domenikon 30 Ott, 2019 - 17:13
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 Nessun colpevole per la strage di Domenikon, in Grecia, dove, durante la seconda Guerra mondiale, il 16 febbraio 1943, almeno 140 civili greci furono uccisi dai militari italiani. Il gip militare di Roma Elisabetta Tizzani ha disposto l'archiviazione del caso; vedremo perché.
Ansa del 16.2/19: "Un crimine di guerra più grave del delitto di rappresaglia, ipotizzato nella precedente inchiesta archiviata, e riguardante la "uccisione deliberata e consapevole di persone civili estranee alle operazioni belliche". L'elenco degli indagati includeva - insieme al generale Benelli, comandante della Pinerolo - il generale Angelo Rossi, comandante del terzo corpo d'armata e nove graduati, in gran parte del Gruppo Battaglioni d'assalto Camicie nere "L'Aquila". Ma tutti i principali autori del fatto - e cioè, scrive il pm, sia "chi dispose e organizzò la spedizione criminale", sia chi "ebbe a eseguire materialmente le uccisioni, obbedendo ad ordini manifestamente criminosi" - risultano essere morti o "ignoti", come i due Capi Manipolo delle Camicie Nere Penta e Morbiducci, che non è stato possibile localizzare e individuare compiutamente. Ugualmente "ignoti" tutti quei militari che hanno proceduto alle fucilazioni, che sono rimasti del tutto sconosciuti. Da qui la richiesta di archiviazione, poi disposta dal gip".
I fatti: a Domenikon, piccolo villaggio della Tessaglia, un attacco partigiano contro un convoglio italiano aveva provocato la morte di nove soldati delle Camicie Nere. Come reazione il generale Cesare Benelli, comandante della Divisione 'Pinerolo', ordinò la repressione secondo l'esempio nazista: centinaia di soldati circondarono e dettero alle fiamme il paese, rastrellarono la popolazione e, nella notte, fucilarono circa 140 uomini e ragazzi dai 14 agli 80 anni.
In Italia, dopo la fine della guerra, non fu indagato nessuno. Nel 2011, però, la denuncia di un cittadino greco, rappresentante dei familiari delle vittime della strage e nipote di uno dei civili fucilati, indusse il procuratore De Paolis (divenuto poi procuratore generale militare) a disporre "ulteriori e più approfonditi accertamenti". Sette anni dopo è arrivata l'archiviazione di una vicenda che non può non far riflettere. |
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Ma certo: Giulio Cesare! Io francamente non l'avrei mai immaginato con quelle fattezze. È la sorte dei miti, perdono la loro fisicità per diventare evanescenti, disumanizzati, giganteschi. Giova conservarli così o cercare d' immaginarli come potevano essere nella realtà!? A proposito, come sarà stata Cleopatra? Alta non credo (e neanche Cesare), pelle scura...bella? boh....certamente scaltra e opportunista.Nell'immaginario collettivo, la figura di Cesare è stata così grande che tutti gli imperatori successivi si fregiarono del suo nome, che in alcune lingue divenne sinonimo di capo supremo, pensiamo a Kaiser o Czar.Nella foto sotto: il Cesare di Marlon Brando (1953). Un po' differente, vero?
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Azzardo un..... GIULIO CESARE? |
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Hai ragione, la presentazione è stata un po' troppo generica. Rimedio con un aiutone: si tratta di un generale e politico romano. Ecco la comparazione con una sua raffigurazione marmorea:
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Proviamo, ma "uno dei più famosi personaggi dell'antichità" è un po' pochino..... proviamo con un po' d'aiuto tipo.... è italiano o straniero, in che periodo storico è vissuto, qual è stata la caratteristica che gli ha dato la notorietà (poeta, scrittore, pittore, inventore, scienziato, personaggio pubblico, politico, religioso)? |
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assodipicche |
Oggetto: Com'erano i grandi personaggi? 26 Ott, 2019 - 19:44
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In Olanda, presso il Museo Nazionale dell'Antichità di Leiden (Leida), un gruppo di ricercatori, con l'ausilio delle moderne tecnologie, cerca di dare un volto a famosi personaggi del passato. Quella che vedete qui nella foto è la ricostruzione del presumibile volto di uno dei più famosi personaggi dell'antichità. Qualcuno vuol provare a indovinare di chi si tratta?
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assodipicche |
Oggetto: Pedofilia e fascismo. 26 Mag, 2019 - 16:39
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L'accostamento e il racconto mi sembrano alquanto artificiosi e carenti di autentico approfondimento. Non voglio naturalmente giustificare quello gli italiani possono aver fatto nelle terre occupate, ma certamente non è così che si racconta la storia o comunque certi aspetti delle guerre. Quello che intendo fare è solo pubblicare quanto scrisse in proposito Indro Montanelli nella "Stanza" del 2 febbraio 2000. Eccola:
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Non credo che faccia parte de "La storia che nessuno conosce" (perché sembra una cosa nota, anche se io, ammetto l'ignoranza, non la conoscevo), ma non sapevo dove metterlo... e qui si parla di storia....
PEDOFILIA E FASCISMO.
Si scrive "madamato", ma si legge "stupro legalizzato". Un termine usato nelle ex-colonie italiane, prima in Eritrea e successivamente anche nelle altre colonie, Libia e Somalia. Mussolini col "madamato" permetteva a tutti i fascisti la propria bambina (7-8-9-10-11 anni) dentro il letto. Non solo ai militari, ma anche ai civili. Credo sia ovvio che solo un pervertito pedofilo può permettere tale scempio, una persona normale non la penserebbe nemmeno una schifezza del genere. Tra l'altro sono tante le testimonianze di presunti stupri ai danni di ragazzine che hanno avuto la sfortuna di incontrare Mussolini.
Ecco ciò che scriveva in Italia la propaganda fascista nelle sue riviste e nei suoi quotidiani: "Non si sarà mai dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Con i negri non si fraternizza, non si può e non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà". (Indro Montanelli)
Il madamato, oltre alla schiavitù sessuale produsse un'altra atrocità, non secondaria, i bambini nati da questi abusi. Il fenomeno portò alla nascita e al lor contestuale abbandono di migliaia di figli "meticci" non riconosciuti dal padre la cui unica sorte era quella di essere abbandonati. Oltre a Mussolini, un personaggio italiano famoso, Indro Montanelli, "confessò" in un'intervista del 1982 (la trovate su youtube) di aver avuto, grazie al madamato, una bambina di 11 anni e mezzo nel proprio letto, si chiamava Fatima e la definiva "un animalino docile". Il madamato segnava il dominio autoritario e assoluto del colonizzatore sull'indigeno, dell'uomo sulla donna, dell'adulto sul bambino, del libero sul prigioniero, del ricco sul povero, del forte sul debole. Il madamato fu abolito dagli stessi, anni dopo, per lo scandalo che si innalzava viste, oltre le morti delle bambine a causa delle violenze sessuali, anche quelle per complicazioni durante e dopo le gravidanze.
La gente sul fascismo sa ancora ben poco e, i fascisti non leggono, non leggeranno tutto l'articolo, quelli non hanno cultura nè coscienza ed inizieranno ad insultare. Molti credono ancora "ai treni arrivati in orario" e altre idiozie diffuse da questa gentaglia. Sul madamato potete documentarvi quanto volete, sbaglierete se cercherete informazioni su blog e pagine fasciste, ma sarà facile trovare l'intervista di Montanelli e documenti a riguardo in rete. Potrete capire chi avrete di fronte quando cercheranno di insabbiare questa triste e amara storia.
Se avete letto tutto complimenti per continuare ad essere persone che cercano di andare oltre il semplice slogan.
(Antonella Rapari) (link)

C'è da aggiungere, non certo a discolpa o a giustificazione di tutto quanto detto, che la pedofilia, purtroppo, è trasversale a qualunque schieramento politico oltre che, come ben sappiamo, agli uomini di chiesa, ma in questo caso si tratta di un comportamento "avallato" dal regime fascista che, proprio per evitare le conseguenze di questo comportamento diffuso, si trovò costretto ad emanare nel1937, il Regio decreto-legge n. 880/37 che introduceva, come primo provvedimento di “tutela della razza”, «sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditi» (da 1 a 5 anni di carcere), nell’intento di interrompere la pratica del concubinaggio nelle colonie italiane in Africa e di vietare i matrimoni misti. Questo, allo scopo di non «inquinare la razza».
Evidentemente non tutti i tipi di “fraternizzazione” erano sgraditi.
Non ci dimentichiamo, in tutto questo obbrobrio, che, fascismo o no, gli italiani, a tutt'oggi, sono i più grandi consumatori al mondo di turismo sessuale: ogni anno 80.000 uomini italiani che a casa sembrano gente qualunque, gente a posto, che mai e poi mai potreste riconoscerli dal modo di fare, figli, mariti apprensivi, padri affettuosi e lavoratori indefessi, partono per andare a "stuprare", pagando regolarmente, bambine di 7-8-9-10-11 anni nei paesi in cui povertà e corruzione facilitano la pratica. Sarà beneficienza? Sarà "aiutarli a casa loro"?
Italiani.... brava gente? 
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IL 25 APRILE RICORDIAMO LA STORIA DI IRMA BANDIERA, LA PARTIGIANA CHE VENNE PICCHIATA E ACCECATA DAI FASCISTI PERCHÉ NON VOLLE TRADIRE I SUOI COMPAGNI
Nell'agosto del 1944 una ragazza di 29 anni aveva appena consegnato delle armi ad una formazione partigiana. Con sé aveva degli importanti documenti cifrati. Sulla via del ritorno, tuttavia, viene intercettata da una pattuglia tedesca e fatta prigioniera. Fu affidata al capitano Renato Tartarotti, al comando della Compagnia Autonoma Speciale, con un solo obiettivo: obbligare la ragazza a decifrare i documenti, che contenevano informazioni fondamentali riguardo le operazioni della resistenza nei pressi di Bologna. Ma Irma non parlerà. Nata in una famiglia piuttosto agiata, rivelò ben presto le sue simpatie per il PCI. Dopo l'8 settembre, seppe subito dove schierarsi. Il capitano Tartarotti provò a convincerla con la tortura, della quale si riteneva un esperto. Irma venne percossa e seviziata in ogni modo possibile. Già provata dalle torture, venne accecata. Non disse una sola parola. Alla fine, fu condotta davanti l'abitazione dei genitori, in un ultimo tentativo per convincerla a tradire i suoi compagni. Al suo rifiuto, venne uccisa con una raffica di mitra. Ottenne la più alta onorificenza militare italiana, la medaglia d'oro al valor militare. Prima di morire riuscì a scrivere una lettera per i familiari, nella quale spiegò alla madre perché volle andare incontro alla morte:
"Ditele che sono caduta perché quelli che verranno dopo di me possano vivere liberi come l'ho tanto voluto io stessa. Sono morta per attestare che si può amare follemente la vita e, insieme, accettare una morte necessaria".
(link)

Non so se qualcuno di voi conosceva questa storia, ma io l'ho letta solo oggi
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Cicuta, ma stai serena! Questa tua reazione alle mie semplicissime osservazioni non la capisco. Tu dici che critico quello che gli altri scrivono, ma tu non hai scritto nulla, hai solo riportato un racconto e allora perché te la prendi!? Quindi, io non ho "criticato" te, ma chi s'è inventata quella storia, parolacce comprese. Quanto alle parolacce.....faccio notare che il professore disegnato in quel raccontino pro immigrati sarebbe un insegnante di Geostoria, una materia introdotta dalla riforma Gelmini qualche anno fa e che raggruppa -negli istituti superiori- le due vecchie materie di Storia e Geografia. Non parliamo quindi di scuola dell'obbligo, ma di scuole superiori e credo che lì, anche (o soprattutto) se ci sono dei contesti familiari poco favorevoli a una corretta espressione, gli insegnanti non dovrebbero accettare supinamente certi linguaggi. Faccio inoltre notare che, proprio perché siamo negli istituti superiori, la percentuale di figli d'immigrati non dovrebbe ancora essere così elevata; a me almeno non risulta. Ad ogni modo, io ho notato un certo...come dire... voluto compiacimento della "scrittrice" nel riportare quella frasaccia, come fanno certi scrittori contemporanei che inseriscono di proposito cospicue dosi di turpiloquio nei loro racconti per renderli più...interessanti. Quanto al mio comportamento, che ci posso fare, io non mi bevo nulla, approfondisco e controllo; sono analitico ed esercito quel poco di libertà di giudizio e di parola di cui ancora dispongo. Nessun altra recondita intenzione!
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cicuta |
Oggetto: VABBè 24 Ott, 2018 - 15:02
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Veramente io avevo cancellato la mia risposta, che ripeto: io non ho certo la tua cultura enciclopedica, ma mi dai la sensazione di essere sempre lì con la matita rossa e blu a correggere cio che gli altri scrivono; ti diro' che nel mio caso te ne sono stata pure grata,talvolta, ma ho imparato a non scrivere più alcunchè , se non dei miei amati pelosi o qualche vignetta umoristica, oppure musica leggera, perchè io esprimo le mie idee in maniera non consona all'idea di "cenacolo" che alcuni sembrano avere della chat. Mi esprimero' in maniera elementare, secondo quella che è la
mia formazione culturale, ma quella è! Talvolta mi pare che tu provi un gusto sottile a confutare cio' che altri scrivono, e così mi è parso nel mio caso; comunque ritengo che se si vuole insegnare ai giovani, specie in zone di particolare degrado culturale, si debba stare un po' al loro gioco, anche sorprendendoli come nel racconto. Ricordo una volta in cui un compagnuccio di un mio adorato nipotino, per darsi arie da adulto, si esprimeva solo a parolacce; gli chiesi " Ma se non esistessero le parolacce, come faresti a parlare?" Mi rispose,,,,,,dicendomi che cosa avrebbe usato, ma meglio io non lo riferisca. Evidentemente aveva un bell'esempio familiare!
Vabbè, mi rifugio nuovamente nelle canzonette e nei miei tentativi di sistemare pelosi abbandonati....
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